Tra le parole più frequentate in ambito scolastico negli ultimi anni, un posto di particolare rilievo spetta al termine competenze. La scuola infatti ai suoi vari livelli dovrebbe stimolare e migliorare negli studenti non solo l’acquisizione di conoscenze e abilità, ma in misura forse maggiore il conseguimento di competenze. Che cosa esse siano, in verità, non è del tutto chiaro, anche se appare evidente che dovrebbero rappresentare l’asse portante degli obiettivi dell’insegnamento e dunque costituire la base per la valutazione dei singoli alunni nonché del lavoro didattico nel suo complesso. In ogni caso un obiettivo del genere, considerata la centralità che esso assume, non può che spingere le scuole a rivedere, almeno in parte, le modalità e le finalità del percorso didattico. Nulla di tutto questo è avvenuto: la parola competenze passa di bocca in bocca a giustificare prassi contraddittorie, o per circondare di fumus dottrinale, quando non burocratico, e di una parvenza di innovazione, scelte a volte confuse, più spesso ancora legate a pratiche consolidate, quando non addirittura superate.
Dal sito del Ministero dell’Istruzione si ricava che gli apprendimenti acquisiti dagli alunni nell’ambito delle singole discipline dovrebbero essere calati (il termine è ministeriale) “all’interno di un più globale processo di crescita individuale”, per cui “non è importante accumulare conoscenze, ma saper trovare le relazioni tra queste conoscenze e il mondo che ci circonda con l’obiettivo di saperle utilizzare e sfruttare per elaborare soluzioni a tutti quei problemi che la vita reale pone quotidianamente”. Insomma non si può dire di conoscere veramente se non si è in grado di servirsi delle proprie conoscenze, facendole diventare risorse per le proprie azioni nella vita di tutti i giorni. Viene da dire che è abbastanza inutile avere molte nozioni ampie di letteratura italiana, se questo non si traduce nella capacità di analizzare un testo più o meno complesso. Per cui, ad esempio, che uno studente sappia tutto del fantomatico pessimismo leopardiano e poi rimanga indifferente di fronte a una pagina delle Operette morali, perché non riesce ad apprezzarne il valore o non ne capisca il contenuto, è segno che la scuola ha in buona parte fallito.
Insomma la scuola che vuole promuovere negli alunni l’acquisizione di competenze deve rivedere in buona parte percorsi e modalità dell’insegnamento. Potrebbe aiutare l’etimologia del termine, che deriva dal latino petere, che significa sia dirigersi, andare a, ma anche chiedere, domandare. Possiamo cominciare a immaginare ore di lezione durante le quali insegnante e studenti si dirigono insieme e con curiosità verso luoghi sconosciuti, che sono quelli che un sapere meno nozionistico consente di raggiungere e di apprezzare. E’ chiaro che il viaggio non può costruirsi intorno a delle verità acquisite, a risposte certe, perché altrimenti il tragitto non porterebbe altro che a girovagare intorno al luogo di partenza. Per muoversi bisogna porsi continuamente delle domande e non pensare di avere già delle risposte a disposizione. Bisogna camminare insieme, incerti del percorso, ma affascinati dallo spostamento.