A proposito ancora del mestiere di poeta, credo sia giusto rileggere uno scritto autobiografico di Bartolo Cattafi, che risale ai primi anni Settanta. Cattafi entra a pieno diritto in questo blog, che ospita spesso parole di poeti dimenticati: del poeta nato a Barcellona Pozzo di Gotto, che quest’anno compirebbe novant’anni non fosse stato portato via da un male incurabile già nel 1979, c’è poca traccia nella memoria dei nostri smemorati tempi e nelle antologie, scolastiche e non, che tratteggiano un indice e propongono un compendio della storia poetica del secolo scorso. Suonano perciò infauste, oltre che veritiere e ancora attuali, le considerazioni di Carlo Bo, pronunciate in occasione di un convegno all’indomani della morte del poeta: “Quando si tireranno le somme del libro della poesia del Novecento, a Cattafi spetterà un posto privilegiato e, ciò che più conta, ottenuto esclusivamente con le sue forze. Si vedrà che a volte vale assai di più una parola tesa all’assoluto che una fondata sul calcolo e su un’avvilente speculazione delle opportunità. Un caso unico, lo ripetiamo, e sarebbe giusto che tutti ormai lo riconoscessero”.
Il riconoscimento insomma tarda ad arrivare. Arriva per ora la notizia felice della prossima ripubblicazione del libro delle Poesie 1943 -1979, edito nel 1990 nella collana dello Specchio di Mondadori a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni.
Tornando alla sua pagina autobiografica, Cattafi scrive, a proposito delle sue prime prove poetiche avvenute nel mezzo della guerra: “Le mille cose che quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo”.
Nell’immagine dell’ingenuo inventario del mondo, nella capacità di posare lo sguardo su oggetti minuti e situazioni marginali apparentemente insignificanti, e ricavarne, con lucida e temeraria chiarezza, necessità assolute, è la forza e la caratteristica forse prevalente della sua poesia.
“La storia dei miei versi – scrive ancora Cattafi – non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell’intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l’impossibile colpo di dadi”.
Si tratta di una trasparente dichiarazione di poetica, sostenuta con coraggiosa consapevolezza in anni di sperimentalismo e di astruserie verbali.
“Non mi riesce di capire il mestieredi poeta, i ferri, il laboratorio di questo mestiere. Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell’imprevisto (vi sono misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di quiete, che scattano e si scatenano secondo le linee d’un disegno naturale a cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo, per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni). Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale”.
Da scrivere sui muri. Da far copiare e mandare a memoria ai molti poeti e ai pochi lettori di oggi. Da raccontare ai ragazzi.