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Gatto e Pratolini (secondo e terzo da destra) al Giro |
Giro d’Italia del 1947, il secondo dopo la pausa bellica. Sono gli anni della rivalità tra Bartali e Coppi, delle imprese eroiche su strade appena praticabili, dell’entusiasmo genuino della gente, che nasce dalla speranza e dalla voglia di superare gli eventi terribili della guerra. Tra i corridori si muove in una larga tuta azzurra, sulla quale campeggia la scritta L’Unità, il poeta Alfonso Gatto. Ha trentotto anni, proprio come il Giro. Con la corsa ciclistica che rappresenta gli italiani ha condiviso dunque sofferenze, aspettative e illusioni. Al suo fianco un narratore di successo, una delle firme allora più amate della sinistra: Vasco Pratolini, inviato al Giro del Nuovo Corriere.
Gatto era un abile nuotatore, amava il ciclismo oltre al gioco del calcio (grande tifoso del Milan e di Rivera in particolare, mentre Pratolini naturalmente teneva per la Fiorentina), ma non sapeva andare in bicicletta, condizione assai strana in un’epoca in cui uomini e donne si muovevano soprattutto pigiando sui pedali. Tra i ciclisti che si lanciano lungo discese da capogiro, che scalano montagne dondolando come ballerine e soffrendo come pugili, un uomo che non sa andare in bici fa sicuramente notizia. E infatti, quando la voce si diffonde tra capitani e gregari della carovana, il poeta salernitano diviene il caso da additare e da guardare con commiserazione.
Lo scrive lo stesso Gatto in un articolo da Pescara, del 6 giugno, raccolto, insieme ad altre cronache del poeta dal Giro e dal Tour, in un volume del 1983, ormai introvabile, curato da Luigi Giordano per conto delle edizioni Il Catalogo di Lelio Schiavone.
Quel giorno Coppi, “che è un bravo ragazzo” scrive Gatto, propone di fargli da maestro. “Si immagini quale onore per me – risponde l’autore de Il capo sulla neve -; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d’Università”. Il campione insiste e i due si danno appuntamento per una lezione. Anche davanti all’insigne professore, Gatto non riesce a stare in equilibrio, ha paura di fallire, si sente inadeguato. “Mi lasci scendere”, supplica. E’ troppo tardi, il poeta crolla per terra, mentre Coppi scuote la testa e decine di curiosi “non si azzardano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi lì Coppi davanti con l’aria del maestro”. “Ma io so nuotare” cerca di spiegare Gatto a Coppi e agli altri, senza ottenere però nemmeno un’alzata di spalle.
“Intanto tutta la città parla e sparla di me – conclude Alfonso Gatto -, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. E’ ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare”.
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Fausto Coppi vince il Giro d’Italia del 1947 |
Che lezione viene da questa caduta di bicicletta! E che grande esempio di giornalismo è questo! Non tiene conto forse di quei princìpi che vengono insegnati nelle scuole che devono formare i professionisti dell’informazione, ma l’articolo è straordinariamente pieno di forza vitale, di umanità, di una curiosità che riesce a dare valore ad ogni avvenimento, anche il più futile. Coppi, vestito da maestro, e Alfonso Gatto, con l’aria dell’alunno un po’ discolo, rappresentano un’immagine che dovrebbe restare scolpita nel cuore del nostro Paese. E poi: le biciclette che diventano “macchine da angeli” e dunque non possono servire solo a camminare sono come le parole per il poeta Gatto, anche quando scrive da giornalista: non possono servire solo a comunicare, ma devono aprire nuovi orizzonti, permetterci di cadere per sognare di volare.