Le poesie di Claudio Pasi, raccolte nel volume Ad ogni umano sguardo, edito da Aragno, seguono le vicende degli uomini in un territorio circoscritto della pianura padana, il lembo di terra dove l’autore è nato e ha vissuto, spaziando in un periodo di tempo sicuramente vasto, a partire dall’88 d.C., a cui fa riferimento la prima delle oltre cento liriche che compongono il libro, fino ad arrivare agli ultimi anni dello scorso millennio, raccontando così anche i decenni che il poeta ha potuto attraversare da protagonista o da testimone diretto.
E’ subito evidente come, anche di fronte agli avvenimenti lontani, ai paesaggi e alle situazioni che appartengono a epoche remote, il racconto lirico sia concentrato sui particolari, sui gesti minimi dei protagonisti, sulle piccole ma straordinarie vicende quotidiane, che pure finiscono per fornire della Storia, quella appunto universale e di tutti, la verità più profonda, il senso si direbbe altrimenti irraggiungibile. Pasi mette a punto un’ottica in qualche modo straniata, che delle cose lontane è capace di vedere i particolari e, in questo modo, di dare conto dell’insieme. La sua poesia spesso indugia, come sottolinea Alessandro Fo nell’ampia introduzione, su termini desunti da lessici specifici, locali o gergali: in questo modo, secondo un procedimento di derivazione pascoliana, l’estrema precisione e la messa a fuoco così ravvicinata, costringono paradossalmente la visione a una maggiore rarefazione e a rendere evidente il senso di mistero che avvolge ogni azione umana.
Lo sguardo del poeta, che è sempre appunto uno “umano sguardo”, non solo perché è quello proprio di un uomo, ma perché ricco di umanità, di una dolente pietas tutta umana, capace di mettere a fuoco puntualmente i dettagli, a volte addirittura soffermandosi sulle sfumature, non distingue però, per fortuna del lettore, tra gli accadimenti importanti e quelli dal significato apparentemente irrilevante, né, all’interno dello stesso avvenimento, tra i protagonisti e i comprimari. Anzi, come si diceva, sono proprio i fatti trascurabili, o quelli che lo diventano a distanza di tempo, e le persone senza senza alcun ruolo determinante, a dare vita al racconto poetico. La verità che cerchiamo si nasconde, anzi sfugge continuamente e, se proprio vogliamo cercarla, dobbiamo sapere che essa è contenuta nelle pieghe minime dei destini, nelle irrilevanti circostanze che compongono il tutto. Il senso di ogni cosa del resto si sfilaccia in magre conclusioni, in esiti precari, nella dolorosa ma inevitabile costatazione della caducità di tutte le vite. E’ proprio in questa transitoria instabilità, sembra dirci Pasi, nel limite che ci attraversa, il segno della nostra grandezza di uomini.
I personaggi che animano queste poesie sono, come d’altra parte tutti noi siamo, delle comparse, anzi, per usare le parole del poeta, “inapparenti / effimere comparse della storia”, come i due soldati ventenni della Wehrmacht ricordati nella poesia Due episodi dell’inverno 1944-45, che “mentre stanno mangiando, di sorpresa / vengono massacrati a colpi d’ascia / e durante la notte sotterrati / da qualche parte dentro la golena”.
Il tempo che noi viviamo non ci permette di essere che apparizioni scolorite. E’ quanto emerge, ad esempio, nei versi conclusivi della poesia L’eclissi solare del 18 aprile 1539: “I fiori si richiudono. Le rondini / fanno ritorno ai loro nidi, mentre i grilli / cominciano a cantare. Nelle stalle / i cavalli nitriscono irrequieti. / Latrano i cani contro il cielo buio. / Sagome senza corpo le persone / fissano la corona di metallo / incandescente intorno al sole nero, / simile ad una luna. Il pomeriggio, / già divenuto notte, ci ricorda / che il tempo nostro è un transito di ombre”.
E’ estremamente ricca di suggestioni, genera forti emozioni, la poesia di Claudio Pasi, che si propone in maniera blanda, con un tono quasi cronachistico, con un endecasillabo che nasconde la musicalità dietro una tensione di tipo narrativo, e che riesce però, in maniera quasi sempre imprevedibile, a evocare un trepidante senso di partecipazione al destino di tutti, soprattutto degli ultimi (ma ognuno di noi non è inevitabilmente un ultimo?), e a far emergere il turbamento che coglie di fronte all’implacabilità del destino.
Nella poesia Un aeroplano abbattuto il 14 maggio 1944 (non sfugga dell’intero volume la drammatica, asettica aridità dei titoli), lo sguardo, l’umano sguardo, si sposta, come in una sequenza cinematografica, dal cielo attraversato dalla scia di fumo, all’aereo che, ormai fuori controllo, “entra in vite e precipita in picchiata”, a quadranti e lancette all’interno della cabina del veicolo, alla mano del pilota “stretta intorno alla cloche come un artiglio”, per tornare infine sulla terra e posarsi su una ragazza che “mentre raccoglie erbaggi lungo i fossi, / osserva di lontano l’apparecchio, / simile a una farfalla che sfarina”, ed arrivare a mettere a fuoco la luttuosa, estremamente intensa immagine conclusiva: “Sparsi all’intorno appaiono i frammenti / della carlinga, un alettone, l’elica, / la ruota del carrello e, tra le spighe / ancora verdi, un fazzoletto bianco / con sopra un’iniziale ricamata”.
Si tratta con ogni evidenza di un avvenimento del tutto marginale, assolutamente poco significativo, della seconda guerra mondiale. Il poeta non ci dice il nome del pilota. Sappiamo solo che l’aeroplano è un Macchi 205 “Veltro”, decollato da Reggio Emilia e sappiamo, particolare minimo che ci dice il dolore e la perfidia di ogni guerra, dell’iniziale ricamata sul fazzoletto. Il modo inizialmente quasi distaccato di raccontare la realtà, la sospensione tra narrazione cronachistica e sentimento lirico, fanno pensare alla poesia di Seamus Heaney, peraltro richiamato nel corso della raccolta e citato significativamente in epigrafe: “Me in the place and the place in me”.
Claudio Pasi è poeta schivo e appartato, dalla voce originale e potente, che offre al lettore di Ad ogni umano sguardo un libro compatto, una prova estremamente convincente.