Non sono molti i movimenti, sempre quelli
sulla pedana avanti e indietro, affondo
presa di ferro, eppure rarefatti
o consistenti diventano miraggio della grazia,
il volteggio dell’anima che fugge
lungo il braccio e vorrebbe mantenersi
infinita. Non sono sufficienti
il gesto delicato e pronto al balzo,
il deciso vigore trattenuto, l’improvviso
schianto, il disegno leggero
delle gambe, il pensiero
che mantiene e che fulmina, la schiena
lieve, che salta e scarta si contrae ritorna
in sintesi perfetta. Bisogna misurare la bellezza,
frenarla, non unirla al tramestio del tempo,
al magro sdrucciolare
dei giorni, all’ombra, alle inutili imprese.
Bisogna che resista
la giovinezza negli occhi e nelle braccia,
sia sempre il vento della leggerezza
nel muscolo che freme e va a bersaglio.
Per vincere occorre essere semplici e lontane,
cedere alla preghiera, all’emozione,
non fissare lo sguardo
sul presente che mette le catene
alle caviglie, pensarsi forma, solo vivo segno,
la muta intelligenza della danza, la nuvola
corretta in resistenza.
Le quattro vincitrici nella scherma
sono la gioia che abbiamo abbandonato, il finale
cantato a squarciagola, l’abbraccio immaginato
con gli amici.
Oggi che continua la vita, mi accontento
di guardarvi da questo tempo nostro
di mortali che avanzano e indietreggiano in pedana,
un po’ più vecchi, più deboli all’assalto, da questo tempo
di parole che fuggono la vita, che si addormentano.
Venite voi, Elisa e Arianna e Valentina e Ilaria,
venite coi fioretti sorridenti, le maschere pensanti,
la sorpresa del braccio che accarezza,
a darci il cuore, a raccontarci il sogno,
a mantenere la fiaccola sospesa
ancora verso il cielo.