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Poesia dall’oblio

Alessandro Franci, Debutto nell’oblio, Interno Libri

Suona solenne e terribile nella sua crudezza il titolo della più recente raccolta di poesie di Alessandro Franci, edita da Interno Libri, Debutto nell’oblio. La fine ha principio, si direbbe: si comincia a dimenticare, a lasciare alle spalle spezzoni di avvenimenti, nomi e persone, lacerti di vita. Ma ciò che raccontano i versi, sempre nitidi e sempre tendenti alla sottrazione, precisi e reticenti, non è solo questione anagrafica e personale. La geografia che si manifesta è già di per sé fatta di luoghi marginali, di depositi di scorie, periferie abitate da carcasse arrugginite, rinunce e incuria, oggetti e esseri che scontano l’emarginazione come condizione stabile dell’esistenza. La fragilità del deterioramento e del declino è la caduta che è diventata norma. L’oblio insomma è nella memoria che si nutre di un passato fatto opaco, ma anche nello sguardo che si posa su spazi segnati dall’abbandono, un desolato suburbio che nella trascuratezza delle forme scopre il suo lato meravigliosamente indefinito e metafisico.

Quello che resta e che Franci indaga con scrupolosa volontà di sezionare e comprendere, è un tempo smozzicato, disincantato e irreale nella sua ostinazione a esistere, lo spazio flebile tra ciò che è accaduto e ciò che rimane, spazio frammentato e perciò incongruente e non necessario, è l’oggetto appunto arrugginito e corroso, senza più valore d’uso e forse senza più valore tout court, piega del tempo a un passo dall’oblio.

È così che questi luoghi geografici, in cui l’abbandono è già manifestazione concreta, oltre che annuncio che prospetta l’assenza, si animano di fantasmatiche presenze, sfilacciate e annebbiate, ma in qualche modo ancora dotate di una loro consistenza. Sono figure che emergono dai ricordi o dall’album sempre insicuro in cui si raccolgono, per ognuno di noi, le leggende ad esercizio familiare: epopee e vicende, in parte forse mai accadute, ma comunque anch’esse arrugginite dal tempo, debilitate e frantumate dall’uso che ne hanno fatto le generazioni. Immagini che sopravvivono di un mondo in bianco e nero, a contatto con lo sfavillare di un presente (ci sarà da qualche parte, lasciano intendere i versi, un oggi che abbaglia con le sue luci) colorato e dinamico. Così, ad apertura di libro, nella prima sezione Senza tempo e nomi: “I crepuscoli di pipistrelli / alle torri, allo scheletro del gasometro / in una ruggine di cavi, // nel cascame tra rovi e fogliame, / marmorei riflessi di maioliche e cocci / di certe dure pretese degli affetti, // seta e lino, i vetri, i vasi rossi dei gerani / a guardia del rovescio di ogni cosa”.

Alessandro Franci

Il presente si compone, si deteriora e quasi si anima, di un passato inerte eppure capace di evocare emozioni e porre quesiti. Gli interni delle abitazioni, vivide di eventi avvenuti durante l’infanzia, sono ora il teatro spento di oggetti calcificati nella memoria, lo spazio residuale e appannato, ma per chi guarda e ricorda (e scrive i versi) imperituro, di vite che sono trascorse e che restano ancora presenze animate, come “certi santini a contatto della vetrina / con le foto dei morti e dei matrimoni / dei nuovi nati e dei bisavoli, / fra i cristalli lucenti dei bicchieri”.

Anche i luoghi di culto, come appare nella sezione I luoghi fedeli, riemergono da un passato fatto di “emulazione dei santi / delle loro lacrime e dei sorrisi”, da una memoria che sa del “fresco chiuso di ombre e penitenze”, del sentore di “incensi nei turiboli oscillanti / fiori e addobbi lucenti / i medaglioni, i cuori argentati / dei ringraziamenti / dei risparmiati dai mari”.

Le azioni che interessano Franci, che occupano a tratti il suo mondo laterale e latente, sono prodotte da chi si palesa solo come un’ombra, una traccia, e avvengono su strade “che vanno dal nulla al nulla”. Sono gli atti di chi procede incerto e come sospeso “in attesa di un fatto / i sassi colpiti con i calci / a seguirne la corsa, sperando in una direzione”.

È il poeta stesso del resto ad assentarsi, a porsi nella condizione di non attività e di non partecipazione alla ridda degli eventi che caratterizzano il presente caotico e fagocitante. Il poeta, che è il personaggio nell’ombra che allunga lo sguardo su questa periferia del tempo e dell’anima, è in fondo un collezionista di rimanenze e di scampoli, abbagliato dal disordinato accumularsi delle cose. E Collezioni ha titolo la terza sezione del libro, che si apre con la poesia: “I residui accumulati / in anni involontari / sono al loro posto / (cornici, specchiere, / reti di letto, / ferro di ringhiere, / la crepa sul marmo delle scale, / steccati sradicati dalle furie / il fango e il catrame) / nel disordine vigente / che riaffiora se lo cerco, / con scrupolo di date / fissate sui quaderni”. C’è una vita “che preme fuori”, ma di cui questi oggetti (“la saliera in vetro a due vaschette / i tappi di ferro con i fori / sul tavolino bianco orlato ai bordi / e il centrino bianco d’uncinetto”) ormai non avvertono che la finzione e la precarietà.

Franci dunque può confessare: “Sono lo straniero, l’estraneo nel passato / il naufrago approdato / alla riva che cede ai colpi delle onde / qualche lembo ogni giorno”. Poi, in conclusione, afferma che è “la difesa degli oblii che preserva dai naufragi”.

Ancor più che nel precedente La lingua convenuta del 2022, a cui Debutto nell’oblio appare fortemente legato, Alessandro Franci, con un linguaggio concreto e insieme elusivo, senza sconti e senza soluzioni semplici, a cui tanta poesia sembra essersi abituata, ci mette di fronte ai messaggi sibillini e arcani che ogni periferia impone.

Pubblicato su Succedeoggi.it

La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso

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