Raffaella Romagnolo, Il cedro del Libano, Aboca
Gli alberi raccontano storie. Sanno tanto del mondo, della vita che si svolge intorno a loro, dei segreti degli umani e delle stravaganze dei non umani; hanno conosciuto generazioni di esseri viventi, che dalla loro altezza hanno messo a fuoco e indagato con la saggezza e la pietà della loro età. Sono straordinari osservatori, tenaci protettori della vita, sapienti chimici, e portano nel loro corpo, a volte ultracentenario, i segni del passare del tempo, le tracce che la Storia, quella che pensiamo di poter scrivere da soli, lascia nel suo percorso spesso dissennato. Loro osservano, annotano, ricordano, raccontano a donne e uomini capaci di ascoltare.
Raffaella Romagnolo ha prestato orecchio e attenzione alle loro voci, con la sensibilità all’ascolto e la capacità di tradurre le emozioni in parole che le sono proprie e che sono testimoniate da romanzi quali La masnà, Destino, Di luce propria. A parlare in questo caso, con il timbro secolare che sillaba antiche fortune e futuri disastri ormai quasi certi, è un albero antico, originario del Mediterraneo orientale, il Cedrus libani, carico di forte, radicata simbologia, più volte menzionato nella Bibbia.
Il cedro del Libano di Raffaella Romagnolo, edito da Aboca nella collana «Il bosco degli scrittori», si compone di otto testi. In quattro di essi (I cedri di Dio, Papilio machaon, Sicut cedrus, Terra promessa) si raccontano vicende, ambientate in epoche diverse, di donne e uomini alla ricerca di qualcosa dentro o fuori di loro. In queste storie è sempre un esemplare di cedro a rappresentare l’elemento caratterizzante della narrazione, il latente e timido deus ex machina, o l’inaspettato, forse involontario, coprotagonista; nelle rimanenti (Al principio, Sopra, Sotto, Quello che conta), è la pianta stessa a diventare oggetto del racconto, che si alimenta così di terminologia scientifica e di riflessioni di carattere botanico, con sonorità espressive, improvvise divagazioni e illuminanti riflessioni, tali da comporre un insieme che si muove tra il terreno della scienza e quelli, in questo caso sovrapponentisi, della narrativa e della poesia.
La prosa di Raffaella Romagnolo, così ricca di pietas e densa di carica affettiva, pur nel misurato procedere delle storie, ci dice di un mondo in cui piante, umani e altre specie animali, sono parte di uno stesso meccanismo, abitanti ‒ con uguale peso e gli stessi doveri ‒ di un pianeta nel quale ci si salva solo se si è consapevoli di essere insieme, se ci si sente, prima ancora che individui, parte attiva e cooperante di un gruppo sterminato. Gli alberi lo sanno, l’hanno sempre saputo, noi forse l’abbiamo dimenticato, che bisogna salvaguardare la propria specie, e proteggere le piante, se si vuole concedere un futuro agli esseri viventi del pianeta. “Quello che conta è velocissimo. Microsecondi. Sei molecole d’acqua più sei molecole di anidride carbonica più luce solare. Risultato: una molecola di glucosio e sei d’ossigeno. Il glucosio diventa linfa e costruisce nuovi tessuti, l’ossigeno si libera nell’aria. L’acqua avanzata diventa vapore e torna in atmosfera” è detto in Quello che conta: se il preziosissimo, minimo meccanismo si rompe, al pianeta e a chi lo abita manca il respiro.
Le quattro storie (e in qualche modo anche lo stesso resoconto della vita del Cedro, che scandisce e intervalla, con capitoli in corsivo, le parti più propriamente narrative) mettono al centro personaggi alla ricerca di una via di scampo o di liberazione, di una soluzione che rimetta in gioco l’esistenza, di un’apertura verso la luce, che sia appunto respiro e vita. Così accade alla giovanissima Hotti protagonista de I cedri di Dio, che mette in scena il proprio rapimento per liberarsi da una famiglia che la vorrebbe soggiogata a consuetudini arcaiche. Per la ragazza la libertà vuol dire fuggire e raggiungere l’amato Meir. Per farlo deve arrivare fino al mare, che non ha mai visto e che si sforza di immaginare, non potendo però che produrre nella mente altro che forme vaghe. Il mare è al di là di luoghi che non conosce e di una foresta di cedri, scenari quasi fantastici dinanzi agli occhi turbati di Hotti, territori popolati da strane presenze e da sorprendenti fantasie, che hanno però il peso e la concretezza della realtà: “Meir aveva ragione, pensa la ragazza: la grande foresta è un posto meraviglioso. Il verde smeraldo dei giovani cedri, il verde azzurro dei rami più forti, il verde nero delle fronde che s’intrecciano senza toccarsi. Squarci di cielo che splendono come forzieri di pietre preziose. Non ha mai visto niente di più bello”.
Al realismo magico della vicenda di Hotti fa eco la fantascienza, modello Bradbury, dell’ultimo racconto del libro, Terra promessa. Gli esseri umani, pochi e con problemi di sopravvivenza, estremamente tecnologizzati e con un’aspettativa di vita intorno ai trent’anni, sono costretti a vivere nell’involucro di una quotidianità surrogata e artefatta: la terra è ormai da tempo un deserto senza più piante e quindi con una minima presenza di ossigeno. Il capitano Lars Nyman, sulla scorta di un vecchio progetto di riforestazione tentato troppo tardi dagli antichi abitanti della Terra, è all’estremo tentativo per capire se da qualche parte la vita sia ancora possibile grazie alla presenza di una qualche parvenza di vegetazione. Nell’ultimo suo viaggio di esplorazione, tracce più consistenti di ossigeno e la sua caparbia volontà lo portano a sorvolare i monti di quel territorio che tempo addietro veniva chiamato Libano.
I due racconti centrali si sviluppano intorno alle figure di un uomo e di una donna realmente esistiti. Il Cedrus libani dell’Orto botanico di Pisa, fu fatto portare in quel luogo da Giorgio Santi, naturalista, botanico e collaboratore del Granduca Pietro Leopoldo. L’albero fu abbattuto da una tempesta nel 1935. Era stato messo a dimora nel 1787, insieme a un esemplare di Ginkgo biloba e a una Magnolia grandiflora, che gli sopravvivono. Il professor Santi, prefetto dell’Orto botanico, protagonista del racconto Papilio machaon, ha fatto scelte di vita e rinunce, inspiegabili anche a se stesso. Il grande cedro fortemente voluto a Pisa offre alla sua insoddisfazione finalmente una ragione e un senso, gli permette di capire se stesso e di dare un ordine al mondo: “Il tempo sta rallentando, ha questa impressione. Come per dargli modo di guardarsi intorno. Le aiuole rigogliose. Le zolle umide. Il brulicare dei lombrichi. Le erbe in pieno sole, ciascuna col suo cartiglio. La ghiandaia che s’appoggia al ramo d’una betulla, e dondola, un rametto che si spezza. Lentamente il respiro si acquieta, il petto si dilata. Il prefetto accarezza la scorza giovane del cedro, i rami che si faranno palchi, gli aghi più vecchi, quelli chiari e teneri. Il mondo adesso è fermo. Il tempo è fermo”.
Infine il cedro forse più caro, almeno per contiguità geografica, a Raffaella Romagnolo, che è nata a Casale Monferrato. Si tratta del grande albero che si erge solitario su una collina nel territorio di La Morra, vigile sulle terre del Barolo e su quella che un tempo fu la tenuta Monfaletto (lo è ancora, credo, ma parte di più vaste proprietà). Fu piantato da Costanzo Faletti di Rodello e Eulalia Della Chiesa di Cervignasco per dare una nuova prospettiva e un riferimento al viandante, per essere segnale di confine e punto di approdo. In Sicut cedrus Romagnolo, con la solita grande delicatezza nella ricostruzione di mondi interiori e di relazioni, racconta della contessa, troppo presto rimasta vedova, intenzionata a sbarazzarsi dell’albero simbolo di quell’unione coniugale disfatta dal destino.
L’albero è ancora lì con i suoi grandi aerei rami, braccia umane si direbbero, protese ad accogliere i filari di nebbiolo che lo attorniano e i viaggiatori che, affascinati, l’ammirano.
Pubblicato su Succedeoggi.it
La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso