Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi
Il mondo, per sua natura e per recondita originaria vocazione, è indecifrabile, anche quando si presenta davanti ai nostri occhi con segni di inequivocabile evidenza. Le cose, gli esseri umani, i non umani, gli stessi avvenimenti, le forme dell’accadere, anche di fronte alla più stringente indagine scientifica, nascondono un prima e un dopo misterioso, una storia che può mostrarsi precaria o fuorviante, la cui intelligibile concretezza rischia di vacillare di fronte al primo dubbio. Eppure i viventi delle varie specie, gli oggetti di ogni fattura e di ogni provenienza, sembrano sempre sul punto di pronunciare una parola che esprima una certezza, di rivelarsi per quello che veramente sono, di confidare uno stato di grazia che possa mostrarsi definitivo. Sono in procinto, si direbbe, di fornire la motivazione di certi nessi che li riguardano da vicino, sciogliere il mistero che li confonde e ci turba.
La poesia di Enrico Testa, in particolare nella nuova raccolta L’erba di nessuno (Einaudi, € 12.50), parla di tutto questo ed è concentrata a distinguere e a indicare gli accadimenti ‒ diversi, impacciati, imprecisi e caotici, e per questo in qualche modo attraenti e meravigliosi ‒ attraverso i quali il mondo si palesa e si esprime: i versi sono il risultato di uno sguardo assorto e sorpreso, a volte abbacinato e smarrito, in altri casi emozionato e partecipe, quasi mai contrariato, di fronte allo spettacolo dei giorni e delle vite. La scena molte volte si manifesta (è lì soprattutto che il poeta dirige il suo sguardo) in vicende umili e minime, eppure, o forse proprio per questo, così straordinariamente pronte a suggerire e a illuminare, a essere sul punto di confessare il segreto che esse stesse nascondono. La poesia di Testa si muove in quel punto di sospensione, in quel tratto nebuloso e perciò anche luminescente, dove le cose concedono una loro confidenza, che in qualche modo suggerisce un possibile varco verso l’ignoto. Siamo su quel terreno dove appunto cresce “l’erba di nessuno”. Nell’ultima delle poesie della sezione che dà il titolo al libro, il poeta scrive: “Com’è vicino l’irraggiungibile… / sale da terra, non scende dall’etere / ‒ si guarda / e non si può legare con un filo / o conservare in un cassetto / ‒ si sente / e non si può ripetere. / È il biglietto d’uno sconosciuto / a cui bisogna rispondere subito / ‒ come a una richiesta d’aiuto”.
Oppure il poeta ci porta (nella sezione che ha titolo Nebbia di mare) su un’insignificante piazzola autostradale da cui “si vedono, nel velo della sera vicina, / case basse disposte su una via diritta”. “Nell’aria sospesa dall’afa”, in questo luogo fuori dal tempo e con poca identità, nell’ora in cui “tacciono anche gli insetti”, sembra che una rivelazione sia finalmente possibile: “Se l’essere è, allora è qui. / Non in Oxford Street / sulle cime delle montagne / nelle lagne accademiche / in tante piroette da teatrante. / È qui che appare / con il suo volto muto, / irriconoscibile accecante”.
D’altra parte la visione del mondo, il sentimento di quello che si guarda, appaiono sempre sul punto di precipitare verso un nulla senza ritorno. Il precipizio, che è del resto il rischio di ogni sguardo, è ad un passo e tutto quello che è possibile guardare è sull’orlo dell’abisso. Ma c’è qualcosa che tiene aggrappati alla vita, “sull’orlo della parola e del mondo”, ed è forse proprio la mancanza di senso, e con essa la fragilità, il silenzio che ne dovrebbe derivare e che invece spesso è sostituito da “esercizi da salotto o da palestra / e tante inutili parole”. Così “le pause dello sforzo, / le bolle che crescono sulla mano” al ragazzo che con una piccola falce taglia (siamo tornati nella sezione L’erba di nessuno) “manciate d’erba odorosa e viva” e che di fronte ha “la terra vista da vicino / con i suoi piccoli abitanti in fuga”, non possono che educare al silenzio: “Nello spazio lasciato vuoto nella mente / dal ripetersi dei gesti attenti / si pensa ad altro: / a tutt’altro ‒ a niente. / Una solitudine assoluta e senza nome. / Come quella dei dipinti dei paesaggi / nati nel digiuno dalla gente. / Conservare e annientare. / Essere uno. / Conoscere, tra gli ultimi, / l’erba di nessuno”. Ad osservare la scena è “seduto su un masso, lo spirito”, chissà forse qualcuno chiamato a mirare e a ammirare, a vagheggiare, poeta o osservatore muto e visionario.
La sospensione raccontata dalla poesia di Enrico Testa è dunque quella tra l’azione e la contemplazione, tra il tenere e il lasciare andare, tra la parola e il silenzio, forse anche tra il comprendere e il lasciar perdere (sapendo che non c’è nulla che si possa veramente comprendere), tra le coordinate apparentemente concrete e ordinate della realtà e le linee evanescenti e enigmatiche del mistero che dalla stessa realtà ci parlano, tra la finzione e la fragile consistenza della vita e la finzione e la fragile consistenza del sogno. Nella poesia Fildiferro, riferendosi allo Steinhof, storico ospedale psichiatrico di Vienna, Testa scrive: “allo Steinhof ci sono stato anch’io / (…) / Al di qua o al di là della rete / dove, tra fronde d’edera verde e gialla, / passeggiavano sgrammaticati soggetti / (…) / Ero al di qua ma spesso / anche al di là, / o esitante sul varco / aggrappato al fildiferro / smangiato di ruggine”. È forse una dichiarazione di poetica, un resoconto programmatico della propria poesia e del proprio essere al mondo questo esitare sul varco, essere al di qua ma spesso anche al di là.
Nella poesia Lion de Chine, il poeta racconta che “la sera del 25 dicembre 2019 / eravamo i soli clienti a cena” nel ristorante che dà il nome alla poesia, in avenue Cernuschi. Nell’aria smarrita del ristorante (“Alle pareti pannelli / di plastica nero-argento / con figure femminili / circondate di fiori: / opachi e corrosi attenuano, / nella loro misericordia, / ferite e stridori”) le cose sembrano sul punto di cedere, l’alito consolante di una verità finalmente sia pronto a far sentire la sua presenza: “so che nei pochi discorsi nel silenzio, / nei nostri volti illuminati / dalle sfere rosse e dorate / che pendono dal soffitto, / risuona l’eco sfuggente delle cose, / filtra non il niente, / ma un tiepido soffio”.
Quelli che potrebbero sembrare luoghi anonimi e senza personalità, senza perciò nulla da mostrare, possono invece risultare i depositari di illuminazioni, forse pallide e pencolanti, ma che potrebbero anche risultare le uniche possibili. Avviene per esempio “nel bar tabacchi dei cinesi / grande come una sala da ballo”, dove su un megaschermo “scorre con luce stanca / un videoclip della Voce del padrone / di Franco Battiato”. La musica, precisa l’osservatore, non l’ascolta nessuno, meno che mai i tre vecchi che sono a un tavolo, uno in compagnia della badante, con tre bicchieri di vino davanti: “Ognuno va a tentoni / per i corridoi della sua mente. / Un non luogo? Per niente. / Ore sospese piuttosto / in cui si sta come trote / prese nella corrente / (…) // Un nulla di purezza e di serena infelicità”.
Come in Pascoli, che più volte ricorre nella raccolta (e insieme a lui Emily Dickinson, Larkin, Lucrezio, Quevedo, Rilke, Nietzsche, dei quali Testa in parte traduce, in parte introietta i versi), il poeta si pone nella posizione dell’osservatore, di colui che contempla, attratto allo stesso modo dalle voci degli umani e dai suoni e dalle presenze naturali. Donne e uomini, vegetali e animali e cose, sono oggetto dell’indagine, perché tra loro comunicanti, perché tutti custodi e investigatori dello stesso mistero. La lingua per dire tutto questo è piana e musicale, narrativa e lirica, precisa e tangibile e insieme portata all’astrattezza. Tutto questo è molto evidente nella sezione Taràssaco, dove fin dalla prima poesia la comunissima pianta diventa emblema della nostra stessa vita e forse anche del modo di procedere della poesia: “dente di leone e dente di cane, / cicoria matta / detta anche selvatica o asinina, / girasole dei prati e missinina, / radicchio matto, pisciacane e piscialletto, insalata di porci e brusaoci, / polenta o fiore del demonio… / (…) / tanti nomi per il volubile soffione / e per la sua bislacca vocazione: / prima una vita plebea a passo lento / e poi ‒ per naturale dedizione ‒ la fine, indecifrabile, nel vento”. O ancora, nella poesia successiva: “Il taràssaco /va e resta, resta e va. / Il suo è un viaggio di vertigine: / porta con sé, / in una minuscola valigia, / la sua origine”.
Pubblicato su Succedeoggi.it
La foto di copertina è di Giuseppe Grattacaso