Simona Mancini, Di madre nuda, peQuod
La letteratura degli ultimi anni ribolle di vicende personali, gioie e sciagure a livello privato, che spesso scivolano in un sentimentalismo d’effetto, di facile ascolto e di sicura presa. O anche si concentra su una quotidianità senza mistero, che non contiene nessuna volontà di dirci quello che siamo, dove l’essere umano è rappresentato solo nella dimensione dell’individuo perso nelle certo dignitose, forse ragguardevoli, ma troppe volte banali, storie di tutti i giorni. Anche la poesia, in particolare delle generazioni più giovani, ama soffermarsi sui racconti di un io che stenta a riconoscersi plurale e che si muove nel recinto ristretto dei legami familiari o di coppia, proponendo il proprio vissuto, la confessione confidenziale, a paradigma universale.
Pur alle prese con una materia quasi sempre singolare e privata, Simona Mancini, nella sua opera poetica d’esordio, Di madre nuda (PeQuod, € 16), evita ogni rischio di impaludamento sentimentale, innanzitutto attraverso un uso abile e spiazzante della lingua specifica della poesia. Le rime ad esempio, a cui l’autrice ricorre ampiamente, e sempre sapientemente, spesso coniugate nella variante della rima al mezzo, invece che sottolineare, creano una sorta di sospensione, rimandano a qualcosa di incerto e di imprevisto, portano il lettore su un terreno tutt’altro che incontaminato, dove anche il privato acquista un senso nuovo, si propone in maniera dubitativa e interrogativa. Valga, a modo d’esempio, la lapidaria sentenza della breve poesia che apre il volume: “Nove anni / e un padre dentro la bara. / Da allora faccio a gara / per tutto. / Col lutto”. O ancora, nei versi di Similitudini: “Somigliarti è il mio supplizio. / Ancora ripetono che io sia la tua orma, / diversa solo per vizio di forma”.
L’urgenza biografica (la morte del padre avvenuta quando la poetessa era ancora bambina, infanzia e adolescenza non facili, una vicenda d’amore che diventa terreno di incomprensione e di fragilità, la maternità agitata e sofferta) è risolta attraverso un linguaggio asciutto e essenziale, per mezzo di un’ironia rarefatta e dunque non invadente, una malinconia soffusa, che non straripa e che si mantiene sempre molto al di sotto dei limiti di guardia.
Una chiave di lettura è certamente offerta, come sottolinea Alessandro Fo nel testo di accompagnamento alla raccolta, dalla citazione d’apertura ‒ Iste ego sum! Sensi, nec me mea fallit imago ‒ tratta dalle Metamorfosi di Ovidio. È Narciso a parlare e a svelare il suo rapporto con l’immagine di sé riflessa, che diventa ai propri occhi verità non ingannevole. Sta di fatto che l’immagine riflessa che si presenta alla vista di Simona Mancini è vera solo perché non è nitida né integra, e perché si manifesta anche con i volti che non sono il proprio, in alcuni casi quelli di persone ormai assenti. Insomma la poesia è costantemente in bilico tra la confessione della propria intimità messa a nudo e la costatazione che una propria intimità che non contenga anche la presenza delle immagini di tanti altri in fondo non esiste. Forse la verità di questi versi risiede proprio nella capacità di farsi immagine, nella continua, e dunque irrisolta, metamorfosi dell’io in qualcosa che continuamente appare e scompare. E la poesia è il veicolo, allo stesso tempo veritiero e fraudolento, di questa incessante metamorfosi.
La parte centrale della raccolta è composta dalla sezione Imperfezioni, costituita da versi che fluttuano nel bianco della pagina, aforismi e brevi sentenze, o solo poesie irrealizzate, che contribuiscono a formare la geografia poetica di Mancini, che sembra confessare che la scrittura è di fatto, per costituzione, imperfetta, in quanto non può far altro che raccontare l’imperfezione della realtà e della vita: “Scrivere è ribaltare il caos” vi si legge, ma anche “Non scrivo di ciò che dico, ma di ciò che taccio”, o “Quando voglio sottrarmi, scrivo”, o ancora, tanto per confessare che ogni confessione non riguarda mai solo se stessi, “Non scrivo per me. Scrivo per conto terzi”.
La poesia non può che nascere dall’urgenza del dire e del dirsi, ma anche dalla consapevolezza che la vita dei versi si annida dappertutto, anche nelle vicende e negli oggetti più irrimediabilmente quotidiani ed è dunque destinata a lasciare una traccia precaria, certo non indelebile. Si vorrebbero definitivi i versi, ma nascono fragili. “Poesia / che ci fai sul mio pane tostato, / sul coltello affilato?” si chiede Simona Mancini, per poi nella poesia Chiacchiere, rivolgersi direttamente alla dea ispiratrice: “Musa, mi fischiano le orecchie. / Vecchie chiacchiere di paese / le parole appese alle tue labbra”.
Nell’ultima sezione della raccolta, che dà il titolo al libro, il contraddittorio tra canto e chiacchiera, tra sublime e tonfo, tra verità a capitolazione, si rivela in maniera evidente nella condizione della maternità, forse lo stato che meno degli altri, almeno nella nostra cultura, si ritiene possa essere considerato fonte di afflizione e di affanno. Eppure la rappresentazione che ne offre Simona Mancini è chiara fin dalla poesia Di madre nuda: “madre svestita di vanto e falso pudore, / madre contenitore, urna di ceneri / infanti, di santi pentiti, di riti // senza mistero, di ciò che è vero e lo so / come so la strada. // Nuda come la terra, la roccia, la spada / da brandire. // Puro modo di dire”; o nella poesia Manna: “Maledetto il giorno in cui mi feci / manna. Ora son cibo e acqua / dentro la spanna dei tuoi deserti gridi”.
L’immagine che lo specchio restituisce è spesso, nella poesia di Simona Mancini, il disegno appannato di un’assenza. Assenza degli altri e di se stessa. Nella poesia Figlio II (o della gramigna), l’assenza è condizione inevitabile dell’esistenza: “Figlio, quando ti sei mostrato / eri il mostro difforme / che rivendica il nome, / eri ipotesi di sofferenza. / Non c’è gioia nel pianto, / nella vita che è assenza”.
Foto di copertina: Giuseppe Grattacaso
Pubblicato su Succedeoggi.it