La poesia deve dirci come è fatto il mondo, ma il mondo non è proprio così come appare ai nostri occhi. Ce lo dicono da tempo i fisici, che ci raccontano di una realtà composta di materia e di eventi, grandi e minimi, che a volte non riusciamo a penetrare e a riconoscere, o di cui, in altri casi, percepiamo solo la faccia esterna, che presenta una sorta di patina, il velo che sbiadisce l’immagine concreta, se ne esiste davvero una, e che nasconde i contorni e dunque la superficie e l’estensione delle cose. È sufficiente pensare che siamo su un globo perso in uno spazio senza limiti, che viaggia su se stesso a una velocità di 1100 chilometri all’ora e che, per girare intorno al Sole, insieme a questo globo ci muoviamo a quasi 30 chilometri al secondo. Insomma, tanto per dirne una, non siamo fermi, come pure ci sembra di essere. E cosa ci appare più certo, se non essere fermi in un luogo: al tavolo di lavoro, seduti su una panchina nel parco, sul letto a dormire? Viaggiamo, viaggiamo, continuiamo a viaggiare. E non ci muoviamo e non sappiamo dove stiamo andando.
Ogni tanto ci accorgiamo dell’esistenza di qualcosa che era davanti ai nostri occhi e che pure non vedevamo. Ci raccontano, e siamo costretti ad immaginare, che c’è una vita pullulante e infinitesima dentro di noi e intorno a noi, che appartiene persino agli oggetti, così placidi nella loro esistenza senza sentimenti, così sicuri di essere solo una storia scritta da altri.
Alcuni poeti, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, hanno imparato a comprendere, attraverso i dati e le informazioni di provenienza scientifica, o in qualche modo anticipandoli, che non è possibile credere a tutto quello che si vede, o meglio è bene crederci, ma solo parzialmente, aspettando che arrivi qualcuno, uno scienziato un poeta, a dirci che le cose non stanno effettivamente così come abbiamo creduto di vedere. Il compito della poesia, sembrano dire questi poeti, è scoprire delle relazioni, guardare dentro e oltre le cose, sapere che c’è un mistero, essere del tutto realistici e, anche grazie a questo, del tutto visionari.
Tornando dunque all’idea del continuo movimento, nostro e degli astri, nostro e delle cose, nostro e delle più minute particelle, è forse necessario che la poesia si appropri di questo movimento e cerchi di leggerlo, non si spaventi di sapere che ogni forma di vita è se stessa e anche altro da sé, ogni oggetto nasconde un’idea imprevista e un legame possibile con qualcosa che non sappiamo, che si agita, si trasforma. La parola della poesia deve essere simile al segno matematico, almeno nel senso in cui ce lo rappresenta Leonardo Sinisgalli in Calcolatrici, un breve testo contenuto in Furor Mathematicus: “In ogni segno matematico c’è l’indicazione di un movimento, ma di un movimento abbreviato a tal punto da contenere in sé, per così dire, già il risultato”.
Anche la parola poetica deve includere in se stessa l’indicazione di un movimento, di un movimento perenne e per sua natura contratto e abbreviato, dunque della possibilità di ogni cosa e di ogni essere vivente di essere anche altro da sé, di attuare, nel movimento, una connessione con l’altro, di rendere esplicita una affinità. E l’altro può essere rappresentato da pentole e fiori, da stelle e nuvole, lampade, lucertole, api, la pioggia, il lampo, la scogliera. In questo movimento di ogni cosa c’è l’impossibilità per ogni cosa di essere pienamente se stessa.
Se il movimento abbreviato del segno matematico contiene già il risultato, questo significa che contiene già il futuro, non un’idea del futuro, ma il futuro stesso, che in quel momento del presente è in quel determinato segno. Ma se esistono una molteplicità di segni e una miriade di combinazioni possibili, ne ricaviamo che saranno innumerevoli i risultati e senza numero anche i futuri.
Anche il segno poetico contiene già il risultato, che forse consiste proprio nel sapere che i risultati sono innumerevoli e che le esistenze di umani e non umani, di animati e inanimati non hanno punti fermi, si somigliano, si combinano. Anche il segno poetico deve raccontare il futuro, cioè quello che non sappiamo ma che già viviamo, cioè il segreto e l’ignoto che è costantemente dinanzi ai nostri occhi.
Foto: Giuseppe Grattacaso