Si è svolto a Salerno, il 17 febbraio scorso, un incontro sulla poesia di Maurizio Marotta, scomparso nell’agosto del 2020. Maurizio, che era nato a Laurino, in provincia di Salerno, nel 1963, aveva pubblicato nel 1989 per i Quaderni di Barbablù di Siena curati da Attilio Lolini la raccolta I cappotti morti, con prefazione di Gianni D’Elia; nel 1992 Il cielo dai balconi, in “Primo quaderno di poesia italiana”, edito da Guerini & Associati. Ha inoltre scritto il testo teatrale 12 per il Teatro dei Piccoli Principi di Firenze e pubblicato Cane di pane illustrato da Oreste Zevola (Orecchio acerbo, 2002). Alcune prose e numerosi testi poetici sono inediti o pubblicati su rivista. Nel corso dell’incontro “Il cuore ha sempre un verso”, svoltosi nella Pinacoteca Provinciale di Salerno, nel giorno in cui Maurizio avrebbe compiuto sessant’anni sono intervenuti Roberto Deidier, poeta e critico letterario, Gaetano Bevilacqua, incisore e disegnatore, autore insieme a Maurizio di preziose pubblicazione d’arte, e il giornalista e scrittore Marcello Napoli, tutti amici e da sempre lettori delle sue poesie. Sono intervenuto anche io, ciò mi ha dato modo di rileggere, in alcuni casi di leggere per la prima volta, i suoi testi e di soffermarmi sulla sua opera grafica. Ne è nata la riflessione che pubblico di seguito.
Le due poesie pubblicate in coda al testo sono tratte dalla raccolta di Maurizio Marotta Ombra da viaggio, in gran parte inedita. Le immagini fanno parte della serie grafica Libreria del vento. L’immagine di copertina ha titolo La stanza del poeta.
La poesia di Maurizio Marotta è poesia dello sguardo che si fa conoscenza. È lo sguardo dell’uomo che sa che quello che sta guardando è complesso e disordinato. L’occhio non può comporre un quadro unitario e quindi non è in grado di restituire un’immagine conclusa ma solo frammenti, lacerti, elementi scollati, l’eterogeneità del paesaggio che ha davanti. Non vediamo tutto intero il paesaggio, ma solo un pezzo alla volta, il resto rimane sfocato e soffocato ai margini dello sguardo. In effetti, vediamo molto poco. Conosciamo quello che abbiamo davanti per lacerazioni e strappi.
Donne e uomini che vivono nell’universo ridisegnato dalle teorie della fisica a partire da Einstein sanno di abitare in uno spazio curvo e frammentato, sempre pieno e sempre caotico. Assistono a una scena che non è possibile vedere nella sua totalità e, di conseguenza, nella sua reale conformazione. Del resto, forse la realtà che osserviamo nemmeno esiste, o almeno non è fatta così come noi la rappresentiamo.
La realtà, quel quadro della realtà del tutto parziale che noi crediamo di vedere, si ricompone solo nella memoria. È la memoria che mette insieme i pezzi e ci dice quello che abbiamo guardato in momenti successivi, la memoria crea i legami e ricostruisce le proporzioni, ci racconta come per noi è fatto il mondo. La memoria in qualche modo è chiamata a ricostruire un ordine, a dare armonia alla realtà, che in effetti si presenta ai nostri occhi in frammenti, in segmenti sparsi.
Mi sembra che la poesia di Maurizio Marotta agisca in un modo analogo nella rappresentazione del mondo: prima in maniera quasi impulsiva (ad esempio nelle poesie de I cappotti morti) e poi con sempre maggiore consapevolezza. Fin dagli esordi avvenuti sul finire degli anni Ottanta, siamo di fronte a una poesia che vive il dramma della mancanza, dell’assenza di un senso compiuto e di un’immagine esaustiva, è una poesia che si sforza di ricostruire, di dare un significato e una posizione alle figure sparse. Se il paesaggio è scomposto, non si può che prenderne atto, ma il compito della parola poetica è nel tentativo di offrire senso, fosse anche solo quello della costatazione della mancanza di senso.
È ovvio che la memoria è portata a ricostruire a modo suo: a distanza di tempo può stravolgere, mescolare, creare inaspettate relazioni, scoprire affinità. “Avvento di natura / se il cielo ripulisce la veduta / e si capisce cosa c’era i giorni scorsi / quali uccelli, / sui davanzali alzare i gomiti, farsi più alti / e guardare che lontano c’è alberi / magari boschi e se ci provi anche un volo / in cielo grafato da ali minute”, scrive Marotta in una poesia de I cappotti morti e, qualche anno dopo, in due liriche tratte da Il cielo dai balconi, “Di nuovo le nuvole / nuvole ancora e di nuovo / senza avere mai fine. Ma poi / a matrice di punti i disegni, / e rapida in fondo, nei rivoli, / ogni vaga figura da leggere… / Per troppa abbondanza / su asfalti, su vita, sui tergicristalli / in eccesso di dettagli / l’acqua scrive e cancella”; “E quante cose morte veramente / funghi, scorze, ali di uccelli, / che rapide al terreno si affastellano / di sé coprendo l’erba”.
Le nuvole sono il segno di un paesaggio, e dunque di tutto intero il mondo, che è fatto di figure vaghe, di disegni che velocemente si scompongono, salvo poi riproporsi in nuove forme, “senza avere mai fine”. La scrittura può solo tentare di trovare un filo, offrire un qualche senso, che non sarà mai conclusivo, al caotico affastellarsi di cose, all’abbondanza di una visione che mette insieme “funghi, scorze, ali di uccelli”, oggetti e cose che non sembrano avere tra loro nessuna parentela.
Più la conoscenza dell’universo si approfondisce, più è chiara la nostra estrema marginalità, la mancanza di ancoraggio, la certezza di essere, noi genere umano, infinitamente piccoli e irrilevanti, in movimento perenne: ognuno di noi è un’ “ombra da viaggio” (che è il titolo di una raccolta, in gran parte inedita, di Marotta, che credo possa essere fatta risalire alla metà degli anni Novanta), in un universo che diventa sempre più grande, anch’esso comunque incamminato a stratosferica velocità verso non si sa dove, non si sa cosa.
Scrive Pascoli, nell’illuminante breve testo teorico L’èra nuova (1899), che il poeta che vive nella nuova epoca che si apre agli albori del Ventesimo secolo deve essere in grado di vedere “con la sua profonda stupefazione, non più la parvenza ma l’assenza”. E stupefazione (“profonda stupefazione”), parvenza e assenza sono parole che possono dirci molto sul modo in cui Marotta traduce l’osservazione in versi e su come (forse anche sul perché) abbia scelto di esprimere, proprio a partire dalla metà degli anni Novanta, la sua visione delle cose non più in versi, ma in disegni e opere grafiche.
Essere stupefatti è il risultato di uno sguardo sul mondo, sul mondo tutto – gli esseri viventi, animali e vegetali, le presenze inanimate degli oggetti – che non è solo meravigliato per quello che vede, ma è anche disorientato e stordito per quello che non riesce a vedere. La poesia e le opere visive di Maurizio Marotta ci restituiscono un paesaggio che è mancante, in cui qualcosa si scompone, che è vittima di uno scivolamento o di un fraintendimento, un paesaggio formato dall’ammasso caotico e sconcertante di vita e morte. La natura non è mai pacificante, o del tutto pacifica (proprio come avviene nell’amato Pascoli): è straordinariamente e meravigliosamente depositaria di un enigma che stordisce e che lascia attoniti. È in questo enigma, in fondo, la maledizione, è in questo enigma la bellezza. Il nostro ruolo di esseri umani ‒ e ancora di più di esseri umani consapevoli, e ancora di più di coloro (scienziati e poeti) che hanno il compito di dire il mondo ‒ risiede nel tentativo di mettere insieme le immagini disordinate e disorientate, di provare a sciogliere l’ammasso, “la troppa abbondanza” e “l’eccesso di dettagli”, pur sapendo che forse un ordine non è dato.
La realtà si propone a sprazzi, per segmenti, immagini separate e dissociate che non arrivano a formulare un’identità precisa. “Il panorama solo ci appartiene. / È veramente l’imperfetto / di uomini e barattoli di case” scrive Marotta in una poesia di Ombra da viaggio. O, in una poesia de Il cielo dai balconi “Per quanto è nero il mondo / tanto andare a picco e in fondo / cogliere nel pugno solo un mucchio / di valve, di luci, le alghe…”. Nelle poesie e nelle opere grafiche c’è spesso il racconto di un mondo che è fatto di figure uniche e lontane, che in modo inaspettato trovano un terreno di connessione – uomini, barattoli di case, valve, luci, alghe, gocce stranite… occhi aperti sul mondo, quadranti, orologi, tralicci, cavi, fiori, insetti, ingranaggi, pesci – che possono comporsi in un disegno complessivo, insieme definito e rarefatto, solo nella memoria (come avviene, per esempio, nella bellissima serie di creazioni grafiche della Libreria del vento: su questo e altro è possibile farsi un’idea consultando il sito www.mauriziomarotta.it amorevolmente curato dai figli). Ma la memoria racconta a proprio modo, rimette insieme i cocci del passato lontano e li mescola con il presente e con il passato più prossimo, mescola il lontano con il vicino, il grande e il piccolo. Solo in questo modo umani, animali e oggetti trovano un loro posto nel paesaggio, un posto spesso insolito e stupefacente, un modo per dirci chi veramente sono.
A partire dalla parvenza – che è condizione generale e inevitabile, segno della nostra fragilità di esseri umani, scomposizione e disordine del mondo – la poesia di Marotta ci restituisce l’assenza del mondo: è un mondo fatto di figure vaghe, che ci dicono del destino comune che apparenta tutti, donne e uomini, ma anche stelle e uccelli, insetti alberi e cose, tutti vittime dello stesso stato di privazione, della stessa difettosa natura, eppure tutti perennemente in movimento, tutti ombre da viaggio.
Il sentimento di commozione e di trepidazione che ne deriva alimenta la piètas del poeta: sentire che il proprio destino è destino di tutti, e provare amore, partecipazione, impulso devoto, anche se quasi timoroso e recalcitrante, nei confronti della vita. Cito ancora dai Cappotti morti: “E poi chissà se è vero / se in vita si conoscono persone / o solo brune immagini / che una pietà indistinta donano / quando i passanti incrociano / lo sguardo di perdono e il desiderio”. Il sentimento che spesso emerge dai versi è proprio quello della “pietà indistinta”, che è sentimento scambievole tra gli umani, che si riconoscono “brune immagini”, e che si posa anche su animali, vegetali e cose.
Torniamo al titolo di Ombra da viaggio. È chiaro che il termine ombra designa in qualche modo il soggetto protagonista delle liriche, che non è un soggetto peraltro identificabile in un individuo preciso: è “uno” che può essere tutti (come nella quarta poesia della raccolta, riportata al termine di questo scritto: “Come d’uno che salga le scale”), presentato nella qualità propria di ogni vita, che è appunto quella del viaggio, del movimento perenne. Bisogna subito considerare come non si tratti di ombra in viaggio, cioè non stiamo di fronte all’esperienza singola di chi, pur nella condizione di ombra, è in viaggio, ma il titolo richiama ad un aspetto che è paradigma della condizione di tutti: siamo ombre da viaggio, come valigie, beauty case, oggetti che chissà chi destina a un percorso che non è dato scegliere.
Nel paesaggio che osserviamo durante il viaggio è contenuto l’enigma: la visione diventa un’ossessione, perché c’è sempre qualcosa che si nasconde, qualcosa che non è al proprio posto, qualcosa che si smembra e si disaggrega, ma anche sempre qualcosa che si rivela, che dà modo di restituire senso, che permette di tentare una ricostruzione.
Nella poesia di Maurizio la rivelazione – sconnessa, instabile, incerta – può presentarsi guardando verso l’alto o dall’alto guardando lontano, oppure viceversa osservando dal fondo, sotto il livello abituale, comunque da una prospettiva inusuale. Bisogna andare oltre, sempre proseguire nel viaggio, visto che una destinazione non è data, giungere nel posto più alto e da lì guardare, perché “il panorama solo ci appartiene”. In quei luoghi alti appaiono e da lì inviano i loro messaggi “gli arcangeli / che rischiano la vita ai cornicioni”, che nella gerarchia celeste hanno ruolo più elevato degli angeli, ma che sono anche “i comici di un sabato da doposcuola”. Le loro “trame / di interminabili incidenti” ci dicono come tutti noi non siamo “adeguati al regno / meno al tempo delle cose”. Nel loro “comparire / poco contenti e incerti nel sorridere” c’è tutta la mestizia degli esseri umani al cospetto della propria condizione di esseri viventi perennemente inadatti alla vita (“ma non vedete che appunto nella mestizia l’uomo differisce dalle bestie?” suggerisce ancora Pascoli nel testo citato).
E questi arcangeli e comici ‒ che tanto somigliano a Stan Laurel e Oliver Hardy colti nelle loro acrobazie nel tentativo di rimettere insieme un mondo troppo propenso a scomporsi ‒ sono i nostri “instabili parenti sventurati”, che vivono, come tutti noi, “nel naufragio degli oggetti quotidiani, / domestici e nell’uso incomprensibili”. E se ancora nutriamo qualche dubbio intorno al fatto che il paesaggio in cui ci troviamo immersi sia indecifrabile e sia il terreno in cui si manifesta l’enigma del nostro vivere, basta fare caso ad alcune ricorrenze che si rivelano in questi versi per fugare ogni perplessità: gli arcangeli che “non sanno dove andare con le scale”, che sono “incerti nel sorridere” e che sono i nostri “instabili parenti”, gli oggetti quotidiani che sono “incomprensibili”, lo scandalo di non essere “adeguati al regno / meno al tempo delle cose”, gli “indizi”, le piume che sono “incerte”. Insomma gli angelici Stanlio e Ollio, con i loro movimenti leggiadramente dissennati, ci mettono al cospetto della nostra condizione di esseri umani, di fronte all’incertezza e alla indeterminatezza, all’enigma appunto, del mondo in cui viviamo. Bellissimi e terribili nella loro limpida consapevolezza i versi finali della poesia: “Vivono comunque anche per noi / i vostri indizi / e incerte nel disegno del passaggio / le piume ricadute da lontano”.
La poesia di Maurizio Marotta e l’opera grafica che ne continua il viaggio cercano di vedere se nel cielo possa esserci un segno, quali nuvole, quali stelle sappiano fornire una rotta, compensare donne e uomini dell’assenza che caratterizza le loro vite.
E fortunati noi a nascere nel secolo
della vostra apparizione, arcangeli
che rischiano la vita ai cornicioni
e che non sanno dove andare con le scale:
se farne uso comune o trame
di interminabili incidenti.
Comici di un sabato da doposcuola,
instabili parenti sventurati
nel naufragio degli oggetti quotidiani,
domestici e nell’uso incomprensibili
come fu, dopo anni,
in più meschina tragedia la nostra vita
nel consumo e nello spreco di occasioni.
Era lì che riuscivate ancora a comparire
poco contenti e incerti nel sorridere
ma sinceri nello scandalo
di non essere adeguati al regno
meno al tempo delle cose.
Vivono comunque anche per noi
i vostri indizi
e incerte nel disegno del passaggio
le piume ricadute da lontano.
***
Come d’uno che salga le scale e rifaccia
a memoria il percorso della giornata
di ciò che vive in lui frammisto:
alzarsi presto e coricarsi
col pensiero dell’amore e dei danari.
Ma come sono gravi gli anni
e che paura che ci fanno gli inumani
atti scaltri di violenza
le forme di assassinii intelligenti.
E come siamo inadeguati, pure,
ad avere intorno cose e gente
che non ci può mai assomigliare.
Il panorama solo ci appartiene.
E’ veramente l’imperfetto
di uomini e barattoli di case.
Allora è meglio che sia
come d’uno che salga le scale fischiando
e arrivato alla porta di casa la passi,
se ne vada più sopra su un alto terrazzo
a vedere cosa c’è nel cielo
e cosa manca agli uomini.
Magnifico, grazie!
Giampaolo