La poesia di Gilberto Sacerdoti, su cui ora dà modo di riflettere l’agile e densa scelta antologica proposta dall’editore veneziano Molesini con il titolo Peltro e argento (pag. 113, € 15), innanzitutto evoca immagini e suggerisce situazioni che dicono di un tempo sospeso e di un luogo eternamente di confine. È lo spazio esitante dove il mare si incontra con la laguna o si dissimula in essa, o dove è la laguna a prendere sembianze di mare aperto, lo spazio dove sembra quasi di poter fare a meno della presenza umana, pure così evidente, essere insomma spazio e tempo della natura e delle cose, il territorio dove natura e cose sono abbandonate al proprio destino.
La voce del poeta registra le immagini che lo sguardo percepisce e le traduce in enumerazioni di piccoli eventi, in elenchi, rarefatti e frammentari, di visioni parziali e, almeno all’apparenza, poco significative, che si compongono in sequenza e scoprono così improvvise parentele e possono far emergere impreviste e comunque pacifiche collisioni: “Azzurro lontanissimo tra nubi / canarini arancioni alle finestre / alberi freddi sulle pietre / campi e calli vuote, gran silenzio” o ancora, sempre nella prima sezione del libro che raccoglie una scelta di testi pubblicati nel 1978 nella raccolta Fabbrica minima e minore, “Davanti e in alto il grido lacerato / e il grande volo bianco senza suono / dei gabbiani maledetti al cielo. // Cane, laguna, terra nera / a tre chilometri Porto Marghera, / melma, rifiuti, primavera”.
Si tratta di contrasti sopiti, timidamente disposti a farsi vicendevolmente spazio, a lasciare insomma che il corso degli eventi si svolga nel suo divenire, pacato eppure mai troppo mite. Del resto il peltro e l’argento, a cui il titolo della raccolta si riferisce, sono ancora legati a vicende marine, a variazioni dell’aspetto e quasi della consistenza della superficie dell’acqua, quando (la poesia è Zattere (1) ed è stata pubblicata per la prima volta nel 2010 sulla rivista Paragone) sotto il sole di luglio e con l’imperversare della bora “la pelle dell’acqua è una cotta / di scaglie e di schegge d’argento”, ma può succedere che “nel giro di un nanosecondo / l’argento si spegne nel peltro”, salvo poi modificare nuovamente la visione con la nuova esplosione dell’argento (“rischizza” è il verbo utilizzato, eminentemente acquatico).
La tessitura metrica, malinconicamente tenue, la prevalenza di immagini soleggiate, la scelta di far emergere colori chiari e brillanti, pur nella costante minaccia dell’ombra e di situazioni improvvisamente avverse (“È dolce il pomeriggio e anche sinistro”, tanto che nel “nuovissimo sole di febbraio” tra i bambini che giocano “uno strappa i pochi / rami inverditi della siepe e un’altra / s’accanisce feroce e minuziosa / a pestare il giocattolo già rotto”) fanno pensare a Umberto Saba e Sandro Penna, come suggerisce Bianca Tarozzi nella postfazione al volume, ma anche, aggiungerei, all’ormai in gran parte dimenticato Diego Valeri, veneto di Piove di Sacco e che insegnò a Padova, città natale di Sacerdoti.
Non è un caso che nella seconda sezione del volume, che ripresenta i testi di Il fuoco, la paglia, pubblicato da Guanda nel 1988, emergano i versi dedicati al pittore fiammingo Pieter Claesz, attivo nella prima metà del Seicento, autore di affollate e umbratili nature morte, in particolare nella forma della Vanitas: “Vanitas è gli oggetti senza l’uomo / (…) / è l’arco e il violino senza il suono”. La poesia si concludere – non senza un tratto di mesta ironia, che spesso si palesa nei versi di Sacerdoti, mostrandosi infine con più evidenza nell’ultima parte del libro dedicata agli inediti – “e vanitas è quello che ci calma, / è vuoto, vertigine e stupore / (…) / l’ottavo giorno dopo la creazione, / l’uomo che si assimila al creatore, / e il peccato dell’assimilazione / estinto sempre assieme al creatore”.
La poesia di Gilberto Sacerdoti spesso mette in scena oggetti, o meglio, come si diceva, è poesia di sguardi che si posano e piovono, un po’ lenti un po’ stupiti e ironici, sulle cose, e sugli animali e sugli uomini (ed emerge dall’ironia malinconica anche una certa discendenza da Gozzano), che hanno però la fissità e la plastica distanza della rappresentazione pittorica. La natura è sempre viva e sempre anche natura morta: è colta in una dimensione che va verso l’astrazione e lo straniamento, è insieme vita e quadro, è se stessa e vanamente se stessa. Nella poesia Pozzo, che apre la sezione dedicata a Vendo vento, il libro del 2001 edito da Einaudi, la visione è occupata da un pozzo che manca però di corda e di secchio: “Il cielo / si offre in silenzio a far da sfondo grigio / per l’interrogazione arrugginita / del ferro curvo sopra un’acqua, sotto, / inattingibile senza restauri / molto improbabili (c’è l’acquedotto)”. E qui l’evidente vanitas – l’impossibilità a rendere efficace lo strumento, come avveniva per il “violino senza il suono” – viene stemperata dalla beffardamente sottile, e perciò tanto gozzaniana, rima finale.
Ha fatto bene lo scrittore Andrea Molesini, artefice e tra gli animatori della neonata casa editrice di poesia che prende il suo nome, a puntare su una serie di autori e di titoli di qualità e di grande interesse. Oltre al libro di Sacerdoti, tra le prime uscite sono da segnalare il complesso, esoterico Messaggio di Pessoa, tradotto e curato da Francesco Zambon, Il pesce rosso che ci nuota nel petto della nicaraguense Gioconda Belli, Oscuro come il tempo di Emmanuel Moses, che lo stesso Molesini ha tradotto dal francese, Il tempo degli spaventapasseri di Josefina Dautbegović, bosniaca che ha vissuto per anni in Croazia e che in questo volume si concentra sul tema della guerra nella ex Jugoslavia, e le Devozioni domestiche di Bianca Tarozzi.
Pubblicato su Succedeoggi.it
La foto di copertina è mia.