Roberto Deidier, All’altro capo (Mondadori)
La poesia di Roberto Deidier è caratterizzata da un tono elegiaco, contenuto e misurato, una sorta di pacata malinconia che si nutre dello sguardo sulla vita, spesso sulla vita della natura oltre che quella degli esseri umani, nel tentativo di cercare un senso che spieghi la nostra presenza, una ragione che possa risolvere le ambiguità dell’esserci e che riesca a porci in una posizione di comprensione e di fiducia.
Nella sua raccolta più recente, All’altro capo, edita da Mondadori, la ricerca dell’equilibrio è minacciata a tratti dallo scoramento, lascia intravedere fratture che si dispera possano essere risanate, manifesta scivolamenti verso zone buie. Non è un caso che una delle sezioni centrali del libro abbia titolo Una discesa all’Ade e che nei versi torni spesso il tema dell’abbandono (un’altra sezione è appunto Chimica dell’abbandono), la sensazione sgomenta che qualcosa vada scomparendo, sia già persa o che tenda irrimediabilmente a deteriorarsi. La natura, i paesaggi della campagna e quelli urbani sono d’improvviso minacciati da una presenza che li corrompe e li degrada, o, vinti dal tempo che intanto ha lavorato sulle cose, mostrano una parte di sé che rattrista e immalinconisce. “Questa città non esiste, puoi soltanto sognarla. / Dove i gabbiani coi rostri tagliano la tela / Di un cielo assurdo e solo, e l’acqua nei canali / ha lo stesso colore impenetrabile di stagione / In stagione. Silenzio e putrefazione”: è detto ad inizio della poesia Venezia, e la città lagunare diventa emblema di un mondo stremato, debilitato dall’assenza di riferimenti che possano dare salvezza, poiché qui, è detto in un’altra poesia (Punta della Dogana Vecchia), “la rosa dei venti non ha senso” e un alito di scirocco “non può bastare a ricordarmi dove sono”.
Come già in Solstizio, il libro che precede All’altro capo di sette anni, un equilibrio è forse irrealizzabile, la ricomposizione di un’unità solo un’utopia, eppure il poeta non può fare altro che tentare di costruire un percorso possibile. La natura a volte, o quello che di essa permane nel ricordo o timidamente si palesa tra le costruzioni urbane, può essere il luogo, se non della salvezza, almeno del risveglio, o dell’illusione che un compimento, una rinascita, sia ancora possibile. Così ad esempio avviene dopo le notti dai sogni agitati e popolati dai morti, “Quelli veri, consunti dalla vita, / Quelli che ho ucciso dentro di me”: “Al risveglio apro la tenda se è primavera / Guardo oltre i vetri, allungo il braccio, / Strappo una foglia. È tutto qui, / In quest’aria che nuovamente invoglia”.
Nella poesia di Roberto Deidier è sempre attivo un dialogo serrato, il confronto pacato e insieme disperato, tra l’ipotesi di una felicità ancora realizzabile, perché forse un tempo realizzata, e la consapevolezza del vuoto, della mancanza di senso: “Vorrei sentire ancora una volta il mio cuore / Che troppo lungamente fa silenzio / E il cuore del mio cuore cantare / Di una strana felicità. // Si sopravvive così, senza argini, / Dentro un umore piatto, una costanza / Aspra disciolta in questo azzurro di aprile, / Resistendo all’ossessione / Di nulla amare, prendere, fermare.”
L’elegia è spesso impegnata a ricostruire un tempo passato, che come tale comunque evidentemente non è più riedificabile nella sua concretezza. La poesia è costretta a muoversi in un segmento, più o meno robusto e significativo, di distanziata incoerenza, di sbilanciata sospensione, il luogo dove la realtà rivela le sue crepe e i suoi contorni sfilacciati, come avviene nella stagione più calda , quando “nel disordine della luce estiva”, gli alberi e i tetti perdono “il loro esatto disegno” e la campagna si presenta come “l’elenco inutile quando i ladri sono fuggiti”. È questo il posto dove “cresce e non dà tregua l’ultima illusione”.
Il tempo, in queste poesie, appare continuamente appannato, senza più proporzioni esatte. Le stagioni dell’anno si lasciano intravedere e amare e intanto si negano. C’è una bellezza, sembra dire Deidier, e insieme una disarmonia che spaventa, in questa prospettiva di una realtà che appare solamente accennata, nel presente che è tale e intanto è già diventato altro, popolato dalle presenze, dagli inganni e dalle rassicurazioni del passato. Anche descrivere quello che l’occhio vede e che la poesia vorrebbe dire (e la poesia di Deidier si alimenta spesso di descrizioni di un mondo apparentemente tangibile) è operazione che in fondo non ha possibilità di riuscita. In Santa Maria in Domnica, che è una chiesa posta alla sommità dell’altura del Celio a Roma, il poeta afferma che “Non c’è tempo per l’occhio, questo insieme / Di portico, di mura e la fontana / Navicella di un viaggio immaginato / Sfuggono in ogni parte”. Insomma “Lo sguardo vive già del suo ricordo. // In questo modo inganna una città / Il telescopio magico degli anni”.
La poesia di Deidier, pur con l’incedere sereno di versi sempre controllati, scandisce il ritmo di una realtà disordinata e inquieta, in cui sempre “il timer dell’amnesia riprende il suo sporco lavoro”. In fondo “quel che vediamo / È solo un ologramma del passato”, quello che cerchiamo di vedere, che crediamo si rappresenti ancora dinanzi ai nostri occhi e che non è altro che proiezione, forse speranza, forse solo finzione. “All’altro capo” c’è il mondo, ci sono gli altri, c’è la figura amata, a volte presenza cercata, a volte fantasma.
La foto in evidenza è di Dino Ignani
Pubblicato su Succedeoggi.it