Prima di arrivare al museo del Prado, mi fermo a prendere una cerveza in un bar in Plaza de Santa Ana. Non è casuale il luogo, né la scelta della bevanda. Voglio un locale al limite della piazza, sul lato dove si immette il Calle del Principe. Ho bisogno proprio di quel bar e di un po’ di tempo (perciò, malgrado l’ora, preferisco la birra a un più sbrigativo caffè), così che dal tavolino possa ammirare la facciata ariosa del teatro Español e immaginare una platea di nuovo piena di gente. La vita è da sempre teatro, più ancora di quanto il teatro non sia vita. Lo è stata anche nell’ultima rappresentazione globale ognuno a casa propria, tamburelli nacchere e triccheballacche suonati dai balconi, dirette istagram e monologhi al computer, balli solitari e strepito di altrettanto solitari e domestici sax soprani. Incubo o realtà? afflizione concreta o messa in scena? Mentre ci rifletto, la birra va giù, come la sabbia nella clessidra. Quanto tempo passerà prima che tutto torni ad essere come prima? quando la paura ci permetterà di avvicinarci di nuovo agli altri? D’altra parte però sappiamo tutti che nessuna cosa sarà veramente come un tempo è stata.
Non lontano da qui, al numero 61 della centralissima Calle Mayor, in una casa stretta e in fondo abbastanza anonima, vivió y murió, come recita la targa, don Pedro Calderón de la Barca. È quello per intenderci che ci ripete da qualche secolo che la vida es sueño. In effetti a sostenerlo, nel dramma che Calderón scrisse nel 1635, è Sigismondo. Il padre, il re Basilio, lo ha rinchiuso subito dopo la nascita in una torre: non vuole che diventi un tiranno, un principe assetato di sangue, come gli astri hanno predetto. Quando poi il re decide di mettere alla prova Sigismondo, ormai diventato un uomo, questi esasperato e inferocito dalla cattività, si comporta in maniera arrogante e violenta, pur essendo in fondo per natura dotato di tutt’altre inclinazioni. Il padre dunque si vede costretto a ripetere, con destinazione inversa, lo stratagemma con cui lo ha portato fuori dalla torre. Gli fa somministrare nuovamente un potente sonnifero e lo riconduce nel suo luogo di reclusione. Quando si risveglia, Sigismondo pensa che il mondo esterno, che ha visto in quella unica occasione, sia stato in effetti solo un sogno. Ma forse è proprio il mondo con tutte le sue dinamiche quotidiane ad essere nient’altro che sogno: nel mondo, in conclusione, tutti sognano ciò che sono, ma nessuno lo comprende. Io sogno che qui mi trovo da questi ceppi fiaccato, e ho sognato di vedermi in più lieta condizione. Cos’è la vita? Delirio. Cos’è la vita? Illusione, appena chimera ed ombra, e il massimo bene è un nulla, que toda la vida es sueño, y los sueños, sueños son, perché tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono.
Forse è sogno anche questo viaggio a Madrid, una pura proiezione fantastica dopo i mesi di custodia cautelare da coronavirus, o forse y estoy temiendo en mis ansias que he de despertar y hallarme otra vez en mi cerrada prisión, è la mia ansia che mi fa temere di ridestarmi ancora una volta nella mia prigione.Ma sono qui per altro. Abbandono la mia postazione al tavolino del bar e imbocco Calle del Prado e poi il Calle de Lope de Vega, che era un altro che dell’oro del siglo de oro sapeva qualcosa. Al museo del Prado vado con l’intenzione di fermarmi di fronte ad un solo dipinto. È la ragione per cui ho intrapreso il viaggio.
Mi dirigo al primo piano dove alcune sale sono dedicate alle opere di Diego Velázquez, il pittore nato nel 1599, solo un anno prima di don Pedro Calderón de la Barca. Velázquez, sivigliano, si recò a Madrid per la prima volta nel 1622. Pare che in quella occasione abbia fatto tappa a Cordoba per ritrarre il poeta Luis de Góngora. In un sonetto l’autore delle Soledades (ahi, la mente va subito ai solitari mesi di distanziamento sociale) parla del rostro dulcemente zahareño, il volto dolcemente disdegnoso, della donna amata. Non si tratta però che di vanos pensamientos, il volto amato si è palesato infatti nel corso di un sogno: El sueño (autor de representaciones), / En su teatro, sobre el viento armado, / Sombras suele vestir de bulto bello. Il sogno appunto è autore di rappresentazioni e nel suo teatro maschera le ombre con volti pieni di fascino.
Velázquez diventò qualche anno dopo pittore di corte e, pare, anche amico del re Filippo IV. Del resto solo lui, don Diego, aveva il privilegio di ritrarre il sovrano. E un ritratto del re e della sua sposa pare stia realizzando Velázquez nel dipinto per cui sono qui, nella rappresentazione almeno che mette in scena il pittore, anche se il quadro in effetti racconta anche altro.
La coppia di sovrani compare solo sul fondo riflessa in uno specchio. In primo piano c’è l’infanta Margarita, che dovrebbe essere la protagonista della scena, e le sue due damigelle, las meninas che danno nome al quadro, almeno nella sua denominazione più popolare. Ma forse protagonista del suo dipinto è lo stesso pittore, che ci si propone in piedi davanti a una grande tela, nell’atto di realizzare quello che potrebbe essere il ritratto di Filippo IV e della sua seconda moglie Marianna d’Austria.
Poi però, mentre sono davanti al dipinto e mi perdo tra i piani della rappresentazione e mi chiedo dove finisca la realtà e cominci il teatro, e quando è la finzione ad offrire consistenza alla vita, ripenso a un bellissimo racconto di Antonio Tabucchi, Il gioco del rovescio. All’inizio della narrazione il protagonista è al museo del Prado davanti a Las Meninas e ricorda le parole della sua amica Maria do Carmo (che sta morendo proprio in quel momento, ma lui ancora non lo sa): la chiave del quadro sta nella figura di fondo, è un gioco del rovescio.
E la figura di fondo è quella del cortigiano José Nieto. Che cosa sta facendo nel riquadro della porta, che appare come una cornice di fianco all’altra, quella rappresentata dallo specchio? Arriva, va via, scosta una tenda per dare luce allo studio del pittore? E lui, don Diego, cosa sta dipingendo? cosa sta guardando? è concentrato sulle persone che sta raffigurando sulla tela o è incuriosito da noi che stiamo guardando lui e gli altri personaggi all’interno del quadro?
Ma chissà forse sulla grande tela si sta componendo proprio il dipinto che noi abbiamo davanti agli occhi, dove tutti i personaggi, ma proprio tutti, a cominciare dall’infanta e dalle sue damigelle, per proseguire con la nana, la suora e l’uomo che le sta accanto, i regnanti riflessi nello specchio, non guardano verso il quadro di cui noi vediamo solo una parte dell’intelaiatura, il rovescio insomma della tela. L’unico che potrebbe sapere cosa sta dipingendo in quel momento don Pedro è proprio José Nieto, la figura vestita di nero nel vano della porta, fermo nella sua posizione plastica nel punto dove converge la prospettiva del disegno.
In quale parte del quadro abbiamo vissuto nei giorni dell’emergenza? Siamo stati i protagonisti di un incubo? Siamo capitati dentro un film e non ce ne siamo accorti? Quante volte ce lo siamo chiesti nelle tante settimane di segregazione forzata. Risiede forse in questo, nel dialogo insensato tra la vida e il sueño, il juego del revés a cui fa riferimento Maria do Carmo?
Il protagonista io narrante de Il gioco del rovescio ha saputo della morte della sua amica, che potrebbe essere stata sua amante, dal marito di lei. Lo raggiunge a Lisbona, come lui gli ha chiesto, e riceve dalle sue mani una lettera di Maria. Una volta ritornato in albergo, l’uomo apre la busta. Al suo interno c’è un foglio dove è impressa una sola parola, SEVER, il cui rovescio (in questo consisteva il gioco che Maria do Carmo da bambina faceva con i suoi amici) è REVES. Il termine REVES, composto così di sole maiuscole, può essere spagnolo o francese, nota il narratore, e nel cambio di lingua assume significati assolutamente diversi. La parola francese rêves vuol dire sogni, che sono però anche, aggiungo io, in qualche modo la parte in ombra, il rovescio della realtà.
Forse ho descritto quello che è un mio sogno di oggi, il viaggio a Madrid che farò, quando sarà possibile e dunque chissà quando, solo per andare ad ammirare Las Meninas e pensare a Tabucchi. O forse, chissà, ci sono già stato al Prado davanti al quadro di Velázquez e l’incubo di questa vita in gabbia si è già concluso e noi tutti siamo di nuovo liberi.
In fondo quello che il quadro racconta, come dice Maria do Carmo, è solo un juego del revés. Ed anche il contenuto di questo articolo è un gioco del rovescio. Come nella letteratura, nel teatro e nella vita, è tutto vero ed è tutto falso.
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