La poesia di Evelina De Signoribus è costantemente mossa da un’esigenza di equilibrio, che non è solamente rivolta in direzione della ricerca formale, ma nasce dalla volontà di trovare un’armonia, una possibilità di bilanciamento tra le cose e gli avvenimenti che animano l’esistenza. La poesia si è come data l’impegnativo obiettivo di portare alla luce il rapporto esistente, e il dialogo che da esso può scaturire, tra animali e uomini, tra i vivi e i morti, tra gli oggetti inanimati e gli esseri viventi, tra gli eventi che confluiscono nella Storia e le vicende quotidiane dei singoli individui, tra le azioni degli uomini e le ragioni o le fatalità che le hanno determinate. Anzi, la poesia si è messa in testa di ricrearlo questo rapporto, di inventare, se mai fosse possibile, un nuovo modo di stare al mondo e dunque, necessariamente, un mondo più stabile.
Le notti aspre, pubblicato dalla casa editrice genovese Il Canneto, è il secondo libro di poesie (dopo Pronuncia d’inverno del 2009) della giovane scrittrice nata a San Benedetto del Tronto, autrice anche del quaderno di racconti La capitale straniera (Quodlibet, 2008) e curatrice, insieme a Elena Frontaloni, del più recente Poeti in classe. 25 poesie per l’infanzia e non solo (Italic Pequod).
La raccolta si compone di cinque parti, nelle quali assumono spesso il centro della scena personaggi che non hanno voce, gli animali ad esempio, ma anche i morti, gli assenti, gli assediati dal peso di una guerra (come avviene nella terza sezione, La lingua della terra, che “si svolge come un racconto in una striscia di terra-di guerra”).
La poesia è dunque lo strumento che può dare voce alla privazione e alla scomparsa. “Se riuscissi a dire di questo prato muto / e del cigolio della giostra vuota / che in tondo gira come un lamento // se riuscissi a dire quanto sarebbe bello / vederti lì ancora tornare con il vento”.
Se è vero che un punto di equilibrio deve pur esistere e va dunque cercato con convinzione, è altrettanto evidente che si tratta pur sempre di un traguardo solamente sperato. A ben guardare, sia quando parla di animali o di coloro che non sono più vivi, sia quando rende protagonisti gli abitanti di un territorio segnato da un lungo conflitto armato, Evelina De Signoribus fronteggia sempre una mancanza, si mette davanti a qualcosa che non ha avuto la forza di realizzarsi o che soltanto non ci appartiene più. (“Dimmi per favore, per prima cosa, qui dove siamo, / se è un posto dove abbiamo vissuto / se salivamo le scale o non c’erano gradini. / Dimmi se camminavi veloce e ti stavo al passo. / Avevi voce? Avevo vita? / Mi occorre sapere se ricordi / perché io altro non so che eri tu”.
La parola allora, non solo deve dare conto di questa situazione di sofferenza, prendere atto della lacerazione che ogni distacco comporta, ma diventa, nelle mani della poetessa, lo strumento privilegiato per cercare di ricostruire lì dove la ferita è visibile, per sanare la perdita. Anche per questo Le notti aspre è una sorta di Libro dei morti. Come nel mito nordico descritto da Peter Handke in Saggio del luogo tranquillo e ricordato dalla De Signoribus nella breve nota introduttiva, le notti aspre “sono quelle comprese tra Natale e Epifania, quando si liberavano le anime dei morti dall’oltretomba, mentre i mortali, i vivi, usavano per conforto restare chiusi in casa, davanti al fuoco”. Evelina ha immaginato “che queste anime venissero a scuotere gli uomini, a bussare alle loro porte”, con l’intento di “forse un giorno rinascere”: “Tra il qui e il là solo gente in fuga / gli uni dagli altri, molti da sé / che aspettano uno squarcio improvviso / o un filo di luce che l’accompagni”.
Le notti aspre assume a tratti le caratteristiche di una preghiera: la parola può essere utile per quello che riesce ad evocare, anche solo a suggerire, ma deve essere capace di assumere i toni e di raggiungere quelle peraltro irraggiungibili proporzioni di una lingua che può essere solo immaginata, che ad ogni passo deve essere rifondata.
Pubblicato sul web magazine Succedeoggi