Ho tra le mani l’elegante volumetto dei 263 Versi di Piero Santi e scopro che la dedica che volle farmi quello che per me è stato un indimenticabile maestro e un caro amico risale al 7 dicembre del 1983. Avevo conosciuto Santi da qualche mese, ma quella era una delle prime volte, se non la prima in assoluto, che mi recavo nella casa di via dell’Erta Canina, appena all’inizio della ripida salita che, dopo il viale alberato che parte, superata via del Monte alle Croci, da quello che fu il ristorante La Beppa, conduce tra gli ulivi fino a piazzale Michelangelo.
Ci sono tornato qualche giorno fa in compagnia di Mari Yamazaki, a cui ho mostrato il piccolo libro edito da L’Upupa, la casa editrice ideata dallo stesso Piero Santi, il quale darà più tardi lo stesso nome anche allo Spazio d’Arte in via de’ Bardi, gestito insieme a Sergio L. Miranda e luogo di incontro di tanti giovani e meno giovani artisti e scrittori.
Mari Yamazaki è una disegnatrice molto nota in Giappone ed è a Firenze perché l’emittente televisiva NHK Educational sta girando un documentario sulla sua vita e sui luoghi che sono stati importanti nella sua formazione di artista. Mari ha voluto ricordare il tempo trascorso a Firenze, dove “fondamentale per la mia crescita umana e culturale più degli studi che ho fatto – racconta davanti alle telecamere – è stata la frequentazione con Piero Santi”.
Ci commuoviamo entrambi nel ricordare quei giorni, lontani nel tempo ma ancora così presenti nelle nostre vite. Il desiderio di incontrarsi e di raccontarsi, di condividere esperienze e riflessioni, di conversare su ogni cosa e di sentirsi parte di un gruppo di amici, sono stati la forza di quella stagione e delle persone che si riunivano intorno a Santi. Dopo di allora quell’entusiasmo e quell’interesse solidale alle pratiche artistiche altrui, conveniamo entrambi, la presenza partecipe di un maestro affettuoso come è stato Piero, non sono più tornati.
Sfoglio il libretto dopo un po’ di anni che non lo facevo e mi rendo conto che la prima poesia fa riferimento all’alluvione di Firenze, a quel tragico 4 novembre di 50 anni fa, a quella vicenda di doloro, morte e resurrezione a cui santi aveva già dedicato gli scritti di Da un tetto e nelle strade, editi nel 1967 da De Donato (chi se ne è ricordato, dico solo per inciso, in questi giorni di commemorazioni?).
Piero Santi amava visceralmente la città nella quale era quasi sempre vissuto (era nato a Volterra il 5 aprile del 1912, ma presto la famiglia si era trasferita in riva d’Arno), tanto da soffrire e polemizzare, già negli anni ’80, per la trasfigurazione che la città andava progressivamente subendo e che per lui, che aveva vissuto, a fianco di Montale, Gadda e Landolfi, il periodo in cui tanti intellettuali si ritrovavano a Firenze intorno ai tavolini del Caffè delle Giubbe Rosse, significava una perdita di identità collettiva che nemmeno il fango e la nafta dell’alluvione avevano prodotto.
Riporto di seguito la poesia, nella quale è possibile leggere l’amore profondo e contrastato, come è solo delle passioni più vere, che legava l’autore de Il sapore della menta, di Libertà condizionata e del bellissimo Ritratto di Rosai alla città che un tempo era stata “grande e putrida di gloria”. Vi si scopre anche il dialogo continuo, ricorrente nell’opera di Santi, tra la morte che appare sempre come un’eventualità incombente, e che in questo caso è minaccia e presenza reale, e il desiderio di nascere o rinascere, la necessità di spingere fino all’estremo la voglia di esserci, perché malgrado tutto “la città vive / come arde di vita Hanoi-napalm”. Anche di fronte al fiume violento e assassino, armato in qualche modo comunque dagli uomini, “i coccodrilli / che piangono lacrime d’oro”, Piero Santi ci dice che la letteratura non può che fare i conti con la morte e non può che essere desiderio di vita.
4 Novembre 1966
Nafta! scoppia la città nera gonfia
d’Arno, nafta a Santa Maria del Fiore,
gorghi gialli ungono i palazzi bui
e il campanile-vampiro muore
rosa-sinistro nell’alba vuota.
Un tempo la città si chiamava Firenze
grande e putrida di gloria;
ora grande e morta immota,
domani grande e popolare,
pop, op, rinascimento e geometria;
le indossatrici fragili a sognare
appoggiate languide-isteriche
alle pietre di pietra serena,
i giovani, fango e amore,
cercano nel fango il tuo rosso fiore.
I love Florence
come una ragazza di Chelsea;
dalle scale del Sacré-Coeur
autostop pour Florence
dove il fiume non ha più anse
né letto né sponde;
attorno alla città che non risponde,
fiat lancia alfa
citroen prinz renault impazzite
spaccano il deserto;
la sera i giovani sbucano dalle tane,
hanno lo sguardo bruno
e gialle le mani.
Abbasso abbasso
l’Arno balsamo fino,
abbasso da Santa Croce al Pino,
dalle cantine fetide di Gavinana
alla piana dell’Osmannoro;
abbasso i coccodrilli
che piangono lacrime d’oro;
mon amour vivra encore
plus beau, plus grand,
nafta e amore, fra le talpe travolte
e i gatti uccisi; i fiumi ribollono
ancora ma noi siamo vivi
e in fiore!
La città vive
come arde di vita Hanoi-napalm
nelle brume gialle dell’Est;
la Mortesecca dell’Ovest
drizza le sue ossa omicide;
ecco la città della vita,
Hanoi rossa
Firenze-rabbia,
la città tenera dell’olivo
sopra il diluvio peste;
vive nelle mani secche e meste
dei giovani,
fango-acqua-diga-enel,
sola, caparbia, altera,
fiera
di vivere.
Abbasso i coccodrilli
che piangono lacrime d’oro,
abbasso,
da Santa Croce all’Osmannoro,
dalle stanze-tane di San Frediano
alle Cascine deserte di grilli:
mota, peste fino all’Indiano.
Abbasso i coccodrilli
dalle lacrime d’oro.