Il blog ospita un testo appassionato e commosso con il quale Alessandro Fo, che ringrazio per aver pensato a questa sede, ricorda, a venti anni dalla morte precoce, la figura del giovane intellettuale Simone Ciani.
Oggi, 10 agosto del 2016, sono esattamente vent’anni dal giorno in cui chiuse la sua breve vita un giovane fra i più geniali che Siena abbia di recente conosciuto.
Il 30 luglio del 1996 aveva compiuto 22 anni. Sulla copertina di un numero della rivista letteraria «Caffè Michelangiolo» (gennaio-aprile 2000), che gli dedica un ampio ricordo, Simone, seduto su una panchina in una pineta, si volta verso il fotografo (verso di noi). Gira una pagina del libro che sta leggendo: il Teeteto di Platone. All’epoca di questo scatto, frequentava il Liceo Piccolomini, con un tale profitto che non solo il suo esame conclusivo fu coronato da una speciale menzione di lode, ma soprattutto, quando si è spento, i suoi ex professori e compagni hanno scelto di raccogliere in un volume gli stessi suoi componimenti scolastici. Una iniziativa che potrebbe a tutta prima sembrare azzardata, ma Nel cuore dell’anima, Il quaderno dei temi e altri scritti (Siena, I Mori, 1996) è un libro già pienamente maturo, che propone di continuo osservazioni personali e mirabilmente profonde su tutto l’arco di quelli che erano gli interessi di Simone: la musica, il cinema, la storia del pensiero, la letteratura, con particolare riferimento al mondo antico.
Pochi giorni prima della sua scomparsa, Simone aveva conseguito il diploma di conservatorio in Pianoforte Principale presso l’Istituto «Rinaldo Franci» di Siena. Si interessava anche di composizione musicale, e, per onorare questa sua passione, la società Mens Sana 1871, in accordo e con la collaborazione dell’Università degli studi di Siena, ha istituito fin dal 1998 il premio di composizione «Simone Ciani», giunto nel 2010 alla settima edizione.
Quanto alla ‘decima Musa’, Simone aveva al proprio attivo una fitta messe di recensioni a stampa e via radio che gli valsero nel 1993 il Premio Giornalistico Silvio Gigli, e in cui spaziava dalle pellicole proiettate in televisione ai brillanti commenti sulle novità del Festival di Venezia, cui fu ufficialmente accreditato come critico della testata senese «Il Cittadino» nel 1994 e nel 1995. Il volume Two rode Togethers (Cavalcarono insieme, a cura di Michele Goni, Firenze, Polistampa, 2003), ne raccoglie una scelta: e Pupi Avati, in prefazione, scrive «ritrovo nelle sue recensioni una trepidazione che è di quelli che sanno di aver colto il bersaglio, nel bel mezzo del centro», e ne mette in rilievo la «lucidità rara», raccontando come, colpito da un ‘pezzo’ su un suo film, gli avesse scritto, e, incontrandolo poi a Venezia, fosse rimasto stupito di scoprire come, all’epoca di quel carteggio, Simone fosse solo un adolescente.
Fra tutte le sue vocazioni, aveva scelto di privilegiare, nello studio, quella all’esplorazione del mondo classico, progettando una tesi in Letteratura cristiana antica che non ha poi avuto modo di scrivere. E la scelta si spiega con il fatto che in Simone era forte la spinta a riconoscere nel patrimonio letterario ciò che è universalmente valido per gli esseri umani, a riproporne e valorizzarne il messaggio, mentre, contemporaneamente, nutriva un impulso a studiare la vita di cui era protagonista, fermandone i lineamenti in sensibili ritratti. Era, per sintetizzare in un’unica parola, uno scrittore, e ne ha dato prova in molte brillanti pagine di varia natura ritrovate fra le sue carte. È da queste pagine che ha preso vita il volumetto di racconti Catastrofi e scrigni, uscito a cura di Antonio Pane per Polistampa nel 1999, e vincitore nel 2002 del Premio «Fiesole» sezione giovani. In uno scritto del citato «Caffè Michelangiolo» che ne ricorda le prose, Antonio Tabucchi lo ha definito «mio compagno di banco», facendo leva su «quella fratellanza di sentimenti propria di coloro che, anche senza dirselo, sono sintonizzati sulla stessa misteriosa lunghezza d’onda dell’animo». Tabucchi allude «soprattutto al suo modo di essere scrittore»: un modo che non si sofferma a cesellare il facile ‘pezzo di bravura’, ma punta alla conquista, sulla pagina, di ciò che «costituisce il plasma del comune sentire (intendo dire del soffrire, o del gioire), di ciò che chiamerei il DNA della natura umana». Una virtù innata, perché, come scrive Pupi Avati, a Simone era «sempre chiaro, in qualsiasi contesto, il centro del problema».
A Simone era sempre chiaro, in qualsiasi contesto, anche il senso di ciò che è opportuno. Tante eccezionali doti non ne facevano affatto un eccentrico, o un intellettualino spocchioso e pieno di sé e arroccato in un proprio hortus conclusus. Mite, gentile, devoto dell’understatement, ‘sapeva vivere’ con simpatica naturalezza, sia che girovagasse mescolandosi alla folla in un giorno di mercato, o partecipasse invece alla vita della sua Contrada, il Bruco – la cui vittoria nel Palio, attesa per tanti anni, ha perduto per un soffio. Così come non si scomponeva quando si trovava a conversare con alcuni grandi della nostra cultura, quali Umberto Eco o Luciano Berio, al quale ultimo dedicò, quando frequentava ancora le medie, lo svolgimento del tema Un personaggio che stimo.
Per tornare al ricordo firmato da Tabucchi, se «la sua scomparsa così precoce appartiene all’ordine delle catastrofi assurde e ingiuste di cui le Parche, senza motivo, sono prodighe verso noi uomini», d’altro canto «le parole che egli ci lascia sono il dono del suo rapido e luminoso passaggio». Un passaggio attento, innamorato, pronto a cogliere con tenerezza e con spirito ogni minima piega di quelle sinuosità dell’essere con cui ciascuno di noi ricerca un proprio spazio.
Nessuno di noi conosce, invece, ed è forse un bene, la misura del proprio futuro destino e il tratto di tempo di cui potrà approfittare. Simone apparteneva in ogni caso a coloro che scelgono di investirlo generosamente, a beneficio, più ancora che proprio, di un patrimonio comune. E se, dunque, chiudendo, posso invadere questo breve e oggettivo ricordo con la nota personale di chi avrebbe dovuto seguire Simone nella preparazione della tesi, e ancora spera che la nostra Università possa trovare modo di riconoscergli una laurea ad onore, desidero sottolineare quanto senta mie le parole con cui ha voluto salutarlo Pupi Avati: «queste poche righe non vogliono essere altro che un doveroso atto di riconoscenza, per avere occupato diverse ore, così preziose nel lampo della sua vita, aiutandomi a trovare un significato, un senso, celato nel mio lavoro».