Immergersi nella lettura dello straordinario libro di poesie che è Notizie del mondo di Philip Levine, recentemente pubblicato nella collana Lo Specchio di Mondadori, è come fare un viaggio nell’irrazionalità dell’esistenza: si scoprono luoghi e avvenimenti a tratti meravigliosi, in altri casi terribili, comunque sempre sorprendenti e degni di essere raccontati, che dicono che la vita procede a tentoni, prende strade impreviste e senza senso, e proprio questa assurdità in fondo è la ragione del suo fascino e della sua oscura necessità. A conforto di questa osservazione valga la vicenda descritta nella poesia Giorni in biblioteca, nella quale il protagonista, confortato dalla luce del sole “che scendeva a fiumi dalle alte finestre”, si lascia andare a una confessione che nasconde anche una sussurrata dichiarazione di poetica: “Scelsi per prima una copia vergine de L’idiota / di Dostoevskij, ogni pagina del quale mi confermava / l’irrazionalità dell’esistenza”. Levine posa sugli eventi grandi e piccoli della vita il suo sguardo partecipe e pacato, nel tentativo di ricostruire il passato che dà sostanza alle sue notizie del mondo, per scoprire che è del tutto inutile cercare di dare un ordine agli avvenimenti. Le storie, che provengono da un tempo più o meno remoto, ritornano come schegge vaganti, avanzi di una realtà refrattaria a modellarsi in una composizione coerente.
Philip Levine è morto da un paio di mesi. Figlio di immigrati russi ebrei, era nato a Detroit nel 1928 e aveva cominciato a lavorare nelle fabbriche di auto all’età di 14 anni. Notizie dal mondo, pubblicato negli Stati Uniti nel 2009, è il suo ultimo libro. Il mondo operaio, la difficile condizione di chi lavora per sopravvivere, come lo zio che viene colto “mentre chino sul mestiere sbagliato / nel posto sbagliato faceva il proprio ingresso / nell’epica non scritta del tedio”, affiorano nei ricordi del poeta, così come riemergono le vite umili e spesso infelici di uomini e donne che non hanno voce, destinati a sparire senza lasciare altra traccia che non sia quella rappresentata dalla loro presenza nei versi di Levine.
Il verso di forte respiro narrativo che caratterizza queste poesie non cerca di ricostruire il passato attribuendogli solennità, né è orientato ad offrire un affresco realistico di una società marginale e depressa. Il viaggio nella memoria, che è anche ricostruzione di una geografia privata che spazia da Detroit a Cuba, dal Baltico delle memorie familiari al Portogallo, procede a sbalzi, con improvvise ellissi e con scarti inattesi, che rendono frammentaria e parziale la ricostruzione dei singoli avvenimenti. Delle vite delle persone che con il poeta hanno condiviso un pezzo di esistenza, o di quelle appena conosciute, è impossibile ricostruire le ragioni che hanno portato a scelte spesso insensate o sapere dove le ha condotte in seguito il destino. Anzi i segmenti che riaffiorano dimostrano come la realtà si sistemi in una composizione traballante e dissennata. Dal movimento a ritroso nel tempo nasce una sorta di commovente Spoon River, un cimitero dove non ci sono defunti a ricordare la propria esistenza passata, ma uomini colti in un attimo lieve e indeterminato della propria vita presente, lasciati come sospesi a chiedersi e a chiederci il senso delle azioni compiute e più in generale della loro e della nostra presenza nel mondo.
Del resto la memoria, già di per sé incapace di ricostruire con precisione il passato, non può che prendere atto che il trascorrere del tempo trasforma o cancella esseri viventi e cose, come è ovvio. La poesia di Levine tramuta questa condanna in meraviglia, conduce lo sconcerto a divenire nostalgia e grazia. Così nella poesia Ritorno a casa (la raccolta è tradotta da Giuseppe Strazzeri): “Un vero posto nella vera città / dove tutti siamo cresciuti. Ci passiamo accanto tu ed io / sulla strada di scuola o tornando a casa / dopo il lavoro. E’ dove sorgeva la vecchia casa / un tempo, i grandi occhi spalancati notte e giorno, / rimpiazzata dal nulla. Potresti definirlo un lotto vacante / ma vuoto non è. Iris selvatici in aprile, / come una spuma di bianchi fiori di pizzo che Mamma chiamava / cicoria selvatica, e ancora euforbia, segale, ginestra, / in autunno la seconda fioritura del rabarbaro / che nessuno raccoglie, una lunga trincea / adatta alla guerra e un tempo disseminata / delle travi rimaste dalla prima casa / crollata proprio qui”. La poesia si conclude con l’apparizione di una figura femminile e con l’amara e ironica costatazione dell’impossibilità di una soluzione che offra un riparo dall’inconcludenza del vivere: “Nella casa / che una volta qui sorgeva, si è levata un’ombra / per dare spazio al giorno, un ricordo di donna / quasi prende forma mentre lei resta / pietrificata alla finestra. Se stiamo zitti / potremmo forse udire qualcosa di vivo / muoversi lungo i vicoli polverosi / o nei giardinetti abbandonati, qualche / cosa lasciata alle spalle, lo spirito del luogo / che ci dà il benvenuto, se il luogo uno spirito l’avesse”.
I piani temporali si confondono e si sovrappongono offrendo al lettore illuminazioni improvvise, così come gli sparuti dialoghi inseriti nelle narrazioni possono aprire squarci sul nulla che avvolge i personaggi, subito disposti però a rientrare in una quotidianità che li affascina e li tramortisce, nell’irrazionalità che si riversa cupa e inevitabile sulle azioni. Nella poesia Dell’amore e altri disastri “l’operatore di presse del Nord / incontrò l’assemblatrice del West Virginia / in un bar vicino allo stadio”. A un certo punto la donna fa scivolare il discorso sulle proprie mani e sui solchi profondi scavati dal lavoro sulle palme. “ ‘La linea della vita’ / disse lui ‘qual è?’ ‘Nessuna’ / rispose lei e lui notò che aveva occhi / nocciola disseminati di pagliuzze / d’oro, e poi – imbarazzato – tornò / a guardarle la mano”. Poi lei gli pulisce gli occhiali e lui non riesce a vedere niente di diverso da prima. “E pensò ‘Meglio / filarsela prima che sia troppo tardi’, ma / sospettò che troppo tardi era ciò che desiderava”.
(pubblicato su succedeoggi.it)