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ORIGINI di Giancarlo Pontiggia (Interlinea Edizioni)

La poesia di Giancarlo Pontiggia è costantemente tesa alla formulazione di un dettato preciso e nitido, alla traduzione del pensiero, anche quando questo comporti un forte sentimento di inquietudine, una profonda apprensione, in un ritmo pacato e fortemente controllato. Fin dagli esordi, avvenuti negli anni Settanta sulle pagine della rivista Niebo e all’interno della fortunata antologia La parola innamorata, da lui stesso curata insieme ad Enzo Di Mauro, il poeta milanese si muove con rigore alla ricerca di un’armonia che possa riferire senza falsità consolatorie, ma anche senza proclami, il senso della precarietà e del fascino instabile dell’esistenza, che sappia risolvere in trasparenza le zone oscure che aggrediscono affetti e azioni.

Giancarlo Pontiggia
Giancarlo Pontiggia

Il primo volume di versi di Pontiggia, Con parole remote, risale al 1998, quindi oltre venti anni dopo le prime pubblicazioni su rivista, a testimonianza di un procedere severo ed esigente, di una disciplina sempre estremamente scrupolosa, così come della tenace volontà di non accondiscendere alle richieste di una realtà, quale è quella in cui viviamo, che tutto vorrebbe consumare in fretta. Questa cura nel costruire un’espressione equilibrata e puntuale deriva in buona parte dalla ininterrotta consuetudine con i classici latini e greci, di cui Pontiggia è assiduo frequentatore. Le due raccolte finora pubblicate (il secondo libro di versi, Bosco del tempo, risale al 2005) e i versi stampati in varie plaquettes, entrano ora a far parte di un volume edito da Interlinea Edizioni. Origini si avvale di uno scritto introduttivo di Carlo Sini e dei contributi critici di Roberta Bertozzi, Massimo Morasso, Daniele Piccini, Massimo Raffaelli.

Il movimento armonico che caratterizza i versi di Pontiggia, il respiro mai affannato eppure continuamente aggredito dal male che segna la condizione umana, sembrano volere reagire con la loro ferma dizione classica, al turbamento provocato dallo scorrere inesorabile del tempo. Insomma di fronte a provvisorietà e incertezza, che costituiscono l’inevitabile palcoscenico su cui siamo costretti ad agire, la poesia risponde avanzando in modo fermo e tranquillo. Scrive Pontiggia, in una breve lirica dal sapore epigrammatico: “O rime, o troppo schive, / io torno a voi in questo / evo buio che delira: siete / il vino che non mente, e la fiamma / che brucia, nella fredda mattina”.

Le poesie si concentrano spesso, in maniera quasi ossessiva, sul tema del tempo, che tutto appunto cancella, l’uomo prima ancora che le sue opere, destinate comunque in parte a sopravvivergli: “E leggi che durare possono / le cose che non hanno vita, / e tu muori, // e questi versi, che altri un giorno / leggeranno, durano più di te, / e tu non duri, / e li hai fatti // e in queste stanze / dove tante ore hai / dormito, altri / ci dormiranno: e così poco / è la vita, // che un verso, un muro, un letto / sono più lunghi di te, / erano prima, e sono dopo / di te”.

Del resto nemmeno la memoria è capace di conservare intatte le impressioni e le vicende passate (“niente rammentiamo / di più che una scialba sagoma, / un cielo di cartone”), anche se a tratti qualcosa risorge improvvisamente e in maniera quasi inaspettata, e produce “i vermigli tremori, acquazzoni / di una festante vita”, ma è conquista di un momento, poi il ricordo “strugge, come lo scricchio / del gelo che si scioglie, o come / il chiuso bocciolo della gemma, sul quale / la stagione incide il suo / imperioso sigillo”.

La poesia di Pontiggia è spesso dunque un tornare appunto alle origini: le proprie personali, degli anni dell’infanzia e della giovinezza, e quelle culturali, rappresentate dalla grande tradizione della poesia classica. Ma il viaggio a ritroso non produce sicurezze, anzi è fonte di smarrimento. La vicenda biografica lascia intravedere l’ipotesi irrealizzata di una vita diversa, lontana, insieme inaccessibile e necessaria. La rivisitazione della poesia latina e greca mette a fuoco per contrasto l’angoscioso, perché appunto frammentario e vano, paesaggio del presente: “Passano, i giorni, / in un ostinato pressappoco: erra / l’anima, / disdegnosa del troppo // poco”.

La poesia di Origini si interroga sui grandi temi dell’esistenza, che generano sconcerto e senso di fragilità, sempre declinando il tormento in un dettato chiaro. Del resto lo stesso Pontiggia, in una intervista concessa nel 2011 a Francesco Napoli, ora raccolta da La Vita Felice nel volume, anche esso edito recentemente, Undici dialoghi sulla poesia, afferma: “Quel che più mi preme, dopo tanti anni segnati dall’egemonia di una poesia ardua, spesso illeggibile – sia essa di provenienza simbolista, cifrata e misteriosa, sia di provenienza sperimentalistica, aperta al potere incontrastato, e inconscio, della lingua – è che il lettore possa muoversi dentro quel mondo come un ospite invocato, non come un estraneo da lasciar fuori sulla soglia, o cui si imponga di avventurarsi in un mondo indecifrabile. Selvosa e indistricabile sarà la materia, a volte la lingua stessa, se l’ispirazione lo richiede: ma la forma complessiva deve giungere – è questo il compito retorico del poeta – a una sua completa limpidezza”.

Che è modalità, viene fatto di aggiungere, propria dei classici.

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