“C’è un buco / nella foglia d’Autunno / che dà dall’altra parte”: sono versi che rappresentano una chiave di lettura utile per entrare nell’atmosfera inquietante della raccolta Poesie del terrore di Saverio Bafaro. Il volume, pubblicato per i tipi de La Vita Felice, è accompagnato da una prefazione di Roberto Deidier e dalle illustrazioni di Piero Crida.
Dall’altra parte del buco c’è lo smarrimento e la paura di ritrovarsi nella stessa realtà di sempre (che cosa può mostrare infatti un buco in una foglia, se non quello che già vediamo?), con la consapevolezza però che il mondo in cui da sempre abitiamo rappresenti appunto un’altra parte, un negativo che riusciamo ora distintamente a percepire, un paesaggio di cui improvvisamente sappiamo i contorni terribili, la faccia oscura e raccapricciante. Insomma la poesia di Bafaro ci trasporta nell’oltre al di là del buco, solo per dirci che esso di fatto non c’è, o almeno che è costituito della stessa materia del nostro quotidiano. I versi ci mettono di fronte ai punti di cedimento, alle presenze evanescenti ma agghiaccianti, alle continue scivolate ai limiti dell’ombra di cui si compongono le nostre giornate.
La poesia di Bafaro percorre questa geografia spettrale con inusitata freddezza, senza partecipazione emotiva, ma solo disegnando con estremo nitore la scena, nel volutamente monotono susseguirsi ritmico di poesie brevi o brevissime: “Da dove mi raggiungi / così esile e bianca farfalla / che in verità sei / gigantesco demone” oppure “Lividi fantasmi / vegliano / sul secolo disabitato”.
Non c’è niente di cui meravigliarsi: il male è già tutto sotto i nostri occhi, la lingua dunque non è disposta a commuoversi ed impressionare, può solo raccontare quello che la realtà mostra, ma che solitamente non siamo disposti a credere, le figure livide che si protendono verso le nostre vite, il male che staziona nei luoghi che solitamente attraversiamo: “Le case attendono / più in là della notte / basse lungo i binari / sanguina l’occhio / della sola finestra accesa / come un lume maligno // Le case attendono / più in là della notte / basse lungo i binari / schiere di serpi scacciate dalle chiese / contorcersi e sputare verdi bave // Le case attendono / più in là della notte / basse lungo i binari / le ruote dei vagoni-fantasma / sfrecciare invisibili e crudeli”.
Bafaro porta sul terreno apparentemente fragile della poesia le caratteristiche di un genere letterario solitamente di pertinenza della prosa. Il terrore infatti pare abbia bisogno del dispiegarsi della narrazione per avere piena possibilità di sviluppo. Ma il racconto ci costringe ad affacciarci sulle vite altrui, il poeta invece vuole che lo sgomento riguardi ognuno di noi, che l’incubo sappia rappresentare il peso del destino comune che ci sovrasta. Si presentano così nel linguaggio della poesia termini e figure prima di ora mantenuti a debita distanza. Del resto lo stesso Bafaro chiarisce i confini entro cui si muove la sua poetica, in una poesia che ha il titolo emblematico di Estetica non-aristotelica. “Noi che abbiamo scelto il Brutto / e letto al contrario il libro dello Stagirita / conosciamo i risvolti / dell’armonico divenuto sghembo / del calmo divenuto irrequieto / del limpido divenuto oscuro / dell’ordine divenuto caos / del simmetrico non più tale / delle proporzioni volutamente saltate”.
E’ questo il mondo in cui Bafaro ci costringe ad abitare, un universo traballante ed irregolare, in cui le proporzioni si alterano, dove l’armonia si frantuma in tormentata instabilità, dove “la Bestia digrigna i denti / ed io ammicco e bacio e sfido / il suo fluorescente splendore”.