Lavoro oggi intensamente sul tema della leggerezza e dunque mi capita (come sarebbe possibile farne a meno?) di leggere più volte alcune poesie di Giorgio Caproni. Mi torna alla mente così che il poeta livornese è morto proprio il 22 gennaio, di 25 anni fa. Non posso non dedicargli un tributo. Leggero, mi riprometto.
A parlare di leggerezza non si può fare a meno di ricordare la prima delle Lezioni americane, in cui Calvino parla, tra l’altro, di una “leggerezza della pensosità” che può far apparire la “leggerezza della frivolezza” pesante e opaca. Massimo esempio di un tale modo di interpretare la leggerezza è Guido Cavalcanti, capace di tradurre filosofia, scienza e letteratura in versi di perfetta levità. Del resto la più famosa delle poesie di Cavalcanti, comincia con queste parole: “Perch’io non spero di tornar giammai, / ballatetta, in Toscana, / va’ tu, leggera e piana, / dritt’a la donna mia”. La qualità che viene richiesta alla ballata, perché possa raggiungere agevolmente la donna amata, e raccontarle però “novelle di sospiri / piene di dogli’ e di molta paura”, è appunto quella d’essere leggera.
Se Cavalcanti è, a detta di Calvino, il “poeta della leggerezza”, di un titolo analogo potrebbe fregiarsi, tra i nostri autori del Novecento, senza dubbio Caproni. L’indagine metafisica, che caratterizza tutta l’ultima parte della sua produzione, è sempre contrassegnata da un tono leggero, da una tendenza a spingere lo sguardo verso l’alto e a scoprirlo, il luogo lontano sede delle nostre speranze, tanto impalpabile da coincidere con il nulla, da una propensione alla sottrazione, che va a insinuarsi anche all’interno dei versi, resi più brevi e più scarni, lasciando sulle pagine tutto il bianco, il vuoto appunto, in cui il tenue tende a sfumare. Così, nella Pensatina dell’antimetafisicante: “Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi c’è il nulla. Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa”.
Del resto in questo la poesia di Caproni procede di pari passo con le acquisizioni della fisica: più l’universo si fa grande, più si scopre formato da particelle piccolissime, elementari. Impalpabili e leggere. Fotoni, elettroni, quarks, gluoni, neutrini: è la fisica (la metafisica?) dei quanti.
La scelta in direzione di una pensosa levità trova una prima coerente e consapevole dichiarazione nei Versi livornesi, dedicati alla madre Anna Picchi, contenuti ne Il seme del piangere, che raccoglie poesie scritte tra il 1950 e il ’58. Caproni non può che associare la figura della madre a immagini che richiamino un’idea di delicatezza e vaporosità: le strade livornesi sono ventose, la donna procede in bicicletta, si fa riferimento a una “scia di cipria”, alla nuca sottile, all’andatura “ilare”, alle rime che devono essere “chiare”, alla mano del poeta che deve farsi “piuma” e “vela”.
I Versi livornesi, che porteranno Caproni ad affrontare comunque il doloroso tema della mancanza, della morte, dell’attraversamento dell’assenza in una sorta di viaggio verso gli inferi, cominciano proprio con un esplicito riferimento a Cavalcanti e alla sua “ballatetta”: “Anima mia, leggera / va’ a Livorno, ti prego”. Se nel poeta amico di Dante era la stessa ballata ad essere investita del compito di essere messaggera delle pene e della sofferenza del suo autore, l’inviata di Caproni è invece l’anima, che deve comunque dimostrarsi leggera se vuole raggiungere il difficile obiettivo di essere ponte tra i vivi e i morti, anzi se vuole provare “se per caso Anna Picchi / è ancor viva tra i vivi”.
L’invito alla leggerezza e il legame con la ballata cavalcantiana attraversano tutto il corpo delle poesie dedicate alla madre: “Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta (…)” (Battendo a macchina); “Mia pagina leggera: piuma di primavera” (Piuma); fino ad arrivare all’Ultima preghiera, nella quale il poeta invita ancora una volta l’anima a muoversi agile e lieve per superare l’ostacolo del tempo e della morte: “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri. E con la gente / (ti prego, sii prudente) / non ti fermare a parlare / smettendo di pedalare”.
La “preghiera” conclude così: “Anche se io, così vecchio, / non potrò darti mano, / tu mormorale all’orecchio / (più lieve del mio sospiro, / messole un braccio in giro / alla vita) in un soffio / ciò ch’io e il mio rimorso, / pur parlassimo piano, / non le potremmo mai dire / senza vederla arrossire. // Dille chi ti ha mandato: / suo figlio, il suo fidanzato / D’altro non ti richiedo. / Poi, va’ pure in congedo”.
La poesia deve essere più lieve del sospiro, più leggera di un soffio, se vuole arrivare a penetrare il mistero, varcare i confini della morte.