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MORTE DI UN NATURALISTA di Seamus Heaney (Mondadori)

A un anno esatto dalla morte dell’autore, arriva nelle librerie la prima raccolta poetica di Seamus Heaney, finora mai pubblicata in Italia. Morte di un naturalista è un testo fondamentale non solo nella produzione di Heaney, in quanto già evidenzia temi e toni che saranno poi elaborati nelle opere successive, ma per l’intera letteratura europea della seconda metà del Novecento. Siamo insomma di fronte a un’opera prima, attraverso cui si manifesta una voce poetica già solida e matura, uno di quei rari casi in cui il libro d’esordio contiene già ben chiara una poetica e la sua futura proiezione. Con una scelta felice dunque, la casa editrice Mondadori ha voluto celebrare il poeta irlandese, premio Nobel nel 1995, proponendo il libro che lo vide esordire nel 1966 e che lo impose subito all’attenzione generale.
La poesia di Heaney è profondamente legata al territorio di origine, anzi proprio alla terra umida e fredda della campagna irlandese, ai suoi paesaggi più umili, così frequentati dal poeta da giovane. Nei versi compaiono, e sembrano essere personaggi dotati di una propria identità, ceste di vimini colme di patate, scavatrici meccaniche, attrezzi da lavoro, bardature, “sacchi orecchiuti” che avanzano “come enormi ratti ciechi”, e un esercito di animali non sempre di nobili origini, come i pipistrelli, le rane, i tacchini, le farfalle, le trote. Nelle prime poesie del volume tornano spesso ad essere protagoniste le figure del padre e dello zio del poeta, che quella terra lavoravano e di cui rispettavano i quotidiani riti e i ritmi spesso faticosi e disumani. La terra è dunque lo spazio dove si manifesta una tradizione contadina rude e vigorosa, sbrigativa e determinata. heaney
Il giovane Heaney, che ha vissuto infanzia e giovinezza in una fattoria persa nella campagna nordirlandese, sa che in quella terra affondano anche le sue radici di scrittore e lo dichiara esplicitamente fin dalla prima poesia della raccolta, la giustamente celebre Digging (Scavare), nella quale dopo aver ricordato il duro lavoro del padre e del padre di suo padre con la vanga che affonda faticosamente nella torba, il breve racconto si conclude con questi versi: “L’odore del terriccio sulle patate, il risucchio e lo schiaffo / della torba impregnata, i tagli netti di una lama / su radici vive mi si ridestano nella mente. / Ma non ho vanga per seguire uomini come loro. // Tra il mio pollice e l’indice riposa / la tozza penna. / Scaverò con questa”. E’ in fondo una dichiarazione di appartenenza che sottolinea il legame con le proprie origini, l’impossibilità di scrivere versi al di fuori di questo vincolo e di questa parentela. La penna sostituisce la vanga ma non la cancella né la rifiuta, anzi ne diventa la naturale prosecuzione.
Per Heaney la campagna irlandese, la torbiera, rappresentano il luogo di un’epica che racconta gesti quotidiani che assurgono a metafora della vita, il ciclico ripetersi dell’esistenza, conquistata con fatica, e della morte che si annida anche nei luoghi all’apparenza più pacifici (come nella struggente Vacanze di metà trimestre, che rievoca la morte del fratellino di quattro anni avvenuta mentre il poeta era in collegio), dell’inevitabile ma non per questo meno drammatico disfacimento di ogni elemento della natura. La campagna sa essere anche terribile, è il palcoscenico dove si muovono presenze poco rassicuranti, un senso di mistero e di paura, che spiega in anticipo quello che sarà l’interesse del poeta irlandese per il nostro Pascoli, amato nel profondo oltre che tradotto. In La raccolta delle more all’iniziale piacere per la maturazione del primo “lucente grumo viola” (“Mangiavi quella primizia e la polpa era dolce / come vino addensato: aveva dentro il sangue dell’estate / che lasciava macchie sulla lingua e brama / di raccolta…”) subentra un senso di disagio e di sofferenza con l’avanzare della rovina e della trasformazione: “Ammucchiavamo le bacche fresche nella stalla. / Ma quando la vasca era colma trovavamo una peluria, / una muffa grigio-ratto, che divorava il nostro tesoro nascosto. / Anche il succo puzzava. Una volta staccata dagli arbusti, / la frutta fermentava, la polpa da dolce diventava aspra. / Mi veniva sempre da piangere. No era giusto / che tutto quel bel raccolto puzzasse di marcio. / Ogni anno speravo che durasse e sapevo che era speranza vana”.
Il paesaggio di questo libro va poco oltre la fattoria familiare situata nella contea di Derry, l’ambiente è limitato a una comunità semplice e chiusa nelle prospettive, ma i versi di Heaney da questo luogo provinciale e ristretto sanno parlare al mondo, perché raccontano le grandi domande e i grandi segreti delle nostre esistenze, con le parole semplici del vivere quotidiano e con l’energia che solo la grande poesia riesce ad esprimere.

(pubblicato su succedeoggi.it)

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