Di Vittorio Sereni si ricorda in questi giorni il centenario della nascita, avvenuta a Luino di Varese il 27 luglio del 1913.
Le poesie di Sereni mi sono sempre apparse come brevi racconti, che fanno perno sulla storia personale e sulla “centralità dell’esperienza” (l’espressione è del poeta Stefano Dal Bianco, fine conoscitore dell’opera di Sereni), ma nei quali altrettanto evidente è la difficoltà di raccontare, nel senso che viene meno la possibilità di credere che la realtà, anche quella immediatamente vicina, possa essere oggetto di narrazione, riferimento certo, sostanza coerente in cui avere fiducia. I versi partono spesso da un elemento concreto, una situazione ben individuabile, salvo poi smarrire questo punto tangibile di avvio in un’allusività che lascia trasparire malesseri e trepidazioni, un sentimento sgomento e palpitante.
Riporto la poesia Finestra, tratta da Gli strumenti umani, terzo libro del poeta di Luino, pubblicato per la prima volta nel 1965.
Di colpo – osservi – è venuta,
è venuta di colpo la primavera
che si aspettava da anni.
Ti guardo offerta a quel verde
al vivo alito al vento,
ad altro che ignoro e pavento
– e sto nascosto –
e toccasse il mio cuore ne morrei.
Ma lo so troppo bene se sul grido
dei viali mi sporgo,
troppo dal verde dissimile io
che sui terrazzi un vivo alito muove,
dall’incredibile grillo che quest’anno
spunta a sera dai tetti di città
– e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo.
Pure, un giorno è bastato.
In quante per una che venne
si sono mosse le nuvole
che strette corrono strette sul verde,
spengono canto e domani
e torvo vogliono il nostro cielo.
Dillo tu allora se ancora lo sai
che sempre sono il tuo canto,
il vivo alito, il tuo
verde perenne, la voce che amò e cantò –
che in gara ora, l’ascolti?
scova sui tetti quel po’ di primavera
e cerca e tenta e ancora si rassegna.
E’ evidente che l’atto quotidiano di guardare dalla finestra, il presentarsi di un’esperienza che è fatta di eventi e di personaggi (il “tu” a cui si rivolge il poeta, ad esempio, subito introdotto da quel primo verbo “osservi” e poi, ad inizio di seconda strofa, chiarito al femminile dal termine “offerta”), le azioni dell’osservare e dello sporgersi, del nascondersi, appaiono subito messi in discussione nella loro consistenza reale dall’affermazione che la primavera “si aspettava da anni”, oltre che da un procedere linguistico che alterna elementi del parlato con improvvisi trasalimenti anche lessicali (”e chiuso sto in me, fasciato di ribrezzo”) e con più letterarie costruzioni sintattiche (“In quante per una che venne / si sono mosse le nuvole”), e infine da un andamento ellittico che inaspettatamente scivola su uno spazio vicino e si concentra su un particolare, come avviene nel caso dell’”incredibile grillo”.
L’affermazione che la primavera è “di colpo è venuta”, dichiarata fin nel primo verso, ha bisogno di conferma già nel successivo, “è venuta di colpo”: una ripetizione così ostentata che pare quasi puntare a volere convincere chi scrive e chi legge di un evento che invece non è dato credere possa manifestarsi con così limpida e trepida evidenza. E difatti oltre il verde e l’alito di vento, annuncio della stagione, c’è dell’altro, assicura il poeta, “che ignoro e che pavento”, c’è quel “grido dei viali”, una realtà meno spiegabile e rassicurante, un mondo in disaccordo con la vita dei singoli, c’è un’estraneità che stenta a ricomporsi.
Incombono poi le nuvole a negare l’evento atteso, che “corrono strette sul verde” e che “spengono canto e domani / e torvo vogliono il nostro cielo”. Ma infine un’ipotesi di ricostruzione del mondo, di armonia con la vita, di equilibrio primaverile, arriva in quel canto, nel “vivo alito”, nel “verde perenne”, nella “voce che amò e che cantò”, tutti aspetti coniugati in senso esistenziale e privato. E’ quella la forza che può scovare sui tetti la primavera, la voce forse della poesia, che “cerca e tenta”, ma che infine “ancora si rassegna”.