“Comme po’ trase, vulenno, nu senzo / rint’ ‘o ppoco ‘e sti vvite?” (Come può entrare, volendo, un senso / nel poco di queste vite?). Bastano questi due versi che fanno da incipit alla poesia ‘O veliero a farci entrare nel vivo della poesia di Mario Mastrangelo e a fornircene una possibile chiave di lettura. In effetti le nostre vite, con il loro carico di fragilità e finitezza, hanno poco senso, o comunque la loro più profonda realtà finisce per sfuggirci e per nascondersi alla nostra comprensione, tanto da apparire come “grumo r’ombra rassignata”. Ma può accadere una specie di prodigio: allora improvvisamente una nuova visuale suggerisce un significato, che appare per un attimo risolutivo. A ben guardare si tratta di un punto d’approdo senza via d’uscita, certo improbabile e vago, così come inverosimile e assurdo è il veliero che noi vediamo dentro una bottiglia e che sembra comunque portare con sé tutta la memoria della sua meravigliosa esistenza, le tempeste, le vele, “’e sciate ‘e viento e ‘i vole r’ ‘e gabbiane”. Quel veliero “è passato magnifico e deritto / pe’ chi sa quale ‘mpruvvisa maggìa, / attraverso nu cuollo ‘e vitro stritto”. Allo stesso modo le nostra vite, così inspiegabili e così prive di senso, portano, ognuna nella propria bottiglia, il carico di una incredibile verità.
Mario Mastrangelo è salernitano e scrive nel dialetto della sua città. Nisciuna voce Nessuna voce (Raffaelli Editore) è la sua settima raccolta di versi: si compone di trentasette liriche in doppia versione, dialettale e italiana, e si avvale di una nota introduttiva di Franco Loi.
La poesia di Nisciuna voce è soprattutto speculativa. Mastrangelo tende a indagare, a penetrare nel mistero del vivere, che è evidente innanzitutto nelle piccole cose che ci circondano. Il dialetto non si affida pertanto al gioco facile di una ricerca prevalentemente ritmica e musicale, né indulge nei toni leggeri e comici a cui viene ai nostri giorni spesso associato e relegato, ma è grumo consistente, ha pesantezza fisica, e conduce la poesia sul terreno, spesso impervio, e nei tempi rallentati della riflessione.
La vita è incanto, si diceva, scoperta continua. Può accadere che le gocce d’acqua, che durante un temporale rimbalzano violentemente sul selciato, generino una schiera di folletti (“na folla ‘e munacielle”), che campano per un momento solo, “busciardo e misteriuso”. Per guardarli attraverso la finestra, sulle lastre appannate apriamo un varco di trasparenza con le dita (“cu ‘e dete ‘e trasparenza nu purtuso”). La poesia di Mastrangelo sembra offrire proprio questo varco di trasparenza, si pone come uno spiraglio che lascia intravedere una realtà che si mostra timida e quasi priva di consistenza, abitata da creature evanescenti, che non si sa se vere o frutto solo di svista o miraggio.
Del resto, scrive Mastrangelo in un’altra lirica, c’è un’altra realtà “miscata a chella toia”, una realtà che ubbidisce ad altre leggi e che comunque è presente nelle nostre esistenze, mette paura e sconcerto “pe’ tutt’ ‘e labirinte r’ ‘o cerviello / quanno capisce ca tu, sì, staie ccà, / però appartiene anema e corpo a chella”. Insomma c’è un’altra realtà a cui noi apparteniamo senza rendercene conto.
In effetti il tempo è “cernicchio” (setaccio), che lascia passare solo la sabbia sottile, tanto che ci ritroviamo presenti alla nostra fragilità, quando arriva “’o scumpiglio r’ ‘e ventate” e noi “simmo già quase ‘e polvere, / simmo già quase ‘e cielo”. La vita sembra sapere qual è la sua meta lontana, che a noi sfugge, noi comprendiamo solamente che “nel mistero la vita si completa”.
Se ci fosse ancora qualcosa “rinto ‘o suppingo” (in soffitta), “uno putesse fravecà nu Dio” (uno potrebbe costruirsi un Dio), o se ci fosse almeno un po’ di pane nella credenza, si potrebbe farlo di pane, “nu Dio ‘e pane, buono finalmente”, ma anche la credenza è vuota e l’uomo rimane solo nella sua ricerca, con le sue speranze e le relative delusioni.
Mastrangelo procede con passo sicuro, esplora la realtà, la rivolta e la scruta alla ricerca di una risposta che non arriva, ma che in fondo è già di per sé sufficiente a darci, leopardianamente, ragione della nostra presenza.