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Caproni: un bicchiere, una stringa

 

Giorgio Caproni (ph. di Dino Ignani)

In una conversazione della prima metà degli anni Sessanta, raccolta da Ferdinando Camon nel prezioso volume Il mestiere di poeta, pubblicato allora presso l’editore Lerici e poi riedito nel 1982 da Garzanti, Giorgio Caproni afferma che l’unica “linea di svolgimento” che è possibile intravedere nei suoi versi è “la linea della vita”: “il gusto sempre crescente, negli anni – dice -, per la chiarezza e l’incisività, per la ‘franchezza’, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà”. A rendere più esplicito il concetto aggiunge: “Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata, nemmeno come lettore”.

Anch’io ho difficoltà come lettore a intrattenere un rapporto sereno con tanta poesia che ama perdersi in fumi e nuvolaglie, in preziosismi che mirano a rendere opaca la vita che la poesia dovrebbe invece in qualche modo mostrare. Molte volte un dettato difficile, quando non propriamente astruso, una lingua oscura e ricercatamente introversa, nascondono una confusione che non si districa, una realtà che non ci appartiene.
Come poi non amare il riferimento al bicchiere e alla stringa? I bicchieri con la loro trasparenza gocciolante, l’eleganza semplice e necessaria, il rifiuto di ogni ornamento artificioso. Le stringhe: l’umiltà familiare, il senso di qualcosa di esterno da noi ma insieme dolorosamente ed affettuosamente intimo.

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