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ADDIO AL CALCIO di Valerio Magrelli (Einaudi)

Negli ultimi anni Valerio Magrelli ha dedicato un’attenzione costante e si direbbe crescente alla prosa, rifuggendo dalle forme del racconto e del romanzo, e dedicandosi invece a brevi scritti concentrati e quasi epigrammatici, che ruotano intorno a un unico argomento. A partire dal 2003 si sono susseguiti tre volumi di prose, intervallati dall’unica raccolta di poesie Disturbi del sistema binario, pubblicata nel 2006.
Dopo l’analisi dedicata al proprio corpo, alle malattie e alla inevitabile decadenza, al centro de Nel condominio di carne, e la riflessione su quel particolare surrogato dell’esistenza che sono i viaggi in treno, contenuta nel più recente La vicevita, Magrelli ora si muove lungo un terreno che appare quanto mai a lui congeniale, e sul quale l’abituale registro ironico e autoironico si condisce di una vena spesso malinconica ed elegiaca. Addio al calcio (Einaudi, € 17) è una raccolta di 90 brevi prose, contrassegnate ognuna non dal titolo né dal numero delle pagine, ma dal minuto del primo o del secondo tempo della speciale partita in cui sono inserite; una partita in cui Magrelli rilegge quella che sicuramente è stata una sua grande passione, ma che finisce anche per essere una chiave di lettura utile ad interpretare eventi del quotidiano e più in generale accadimenti dell’esistenza apparentemente lontani.
Il calcio nelle mani di Magrelli, quello giocato, visto, parlato o solamente evocato in racconti che si avvicinano alla concreta indeterminatezza del mito, diventa un poderoso strumento ottico, dotato di una lente bifocale che avvicina e allontana vicende e argomenti, permettendo a chi scrive e di conseguenza al lettore di muoversi tra passato e presente con veloce e allo stesso tempo pacatissima risolutezza. E così al calcio del presente, che si gioca in stadi nei quali non è più possibile ascoltare i suoni che provengono dal terreno di gioco, il respiro dei giocatori, il colpo del piede sulla palla, si contrappone, richiamato dai versi di Vittorio Sereni e dalle pagine di Borges e Bioy Casares, lo sport meno patinato di un tempo, meno parlato ma più leggendario, condito da una mitologia privata che fa ricordare un forte tiro su un campetto assolato nella calura di un pomeriggio d’estate che produce l’effetto di una traversa spezzata “che scende cigolando sul portiere”; o il calcio, dagli effetti quasi metafisici, che si gioca nelle stanze di una casa vuota, nei giorni che seguono un trasloco, con l’ebbrezza di partite che durano ore e lasciano il ricordo “di un ibrido, di una strana chimera, un insensato incrocio tra campo di calcio e tinello”.
Secondo quello che è un modo di procedere tipico della poesia e della prosa di Magrelli, la realtà, anche quella più abusata o più banale, produce lampi improvvisi, impreviste epifanie, si traveste essa stessa da metafora e come tale regala significati che permettono di penetrare le vicende da nuovi angoli di esplorazione. E’ così ad esempio che la bellissima pagina raccolta al 41′ del primo tempo rievoca i pomeriggi trascorsi di un giovanissimo Valerio sui praticelli stenti tra i contrafforti di Castel Sant’Angelo. Finita la partita, veniva il bello: cercare di spedire la palla oltre le mura. Una missione impossibile, eppure, ricorda Magrelli, “eravamo capaci di impiegare ore intere nel tentativo di calciare più su, più su possibile. Risento ancora il tonfo, e il lungo silenzio che seguiva l’ascesa di quei proiettili lentissimi, protesi verso il cielo, inutilmente”. Leggendo queste parole vien fatto di pensare come quel gioco, nella sua folle ossessione, nella ostinata lentezza, nel mirare verso un traguardo irraggiungibile, risulti in fondo molto simile alla poesia.
Addio al calcio è anche un dialogo a distanza con il figlio che, attratto piuttosto dalla PlayStation e a disagio fin da piccolo con gli scarpini, chiude presto con il “calcio sterminato”, quello per capirci “dei campi che non finiscono più, in cui serve artigliare il terreno a forza di tacchetti e di fiatone”; e con il padre, che incontriamo tra l’altro in quella straordinaria notte estiva di Italia–Germania, chiuso in bagno durante i tempi supplementari, incapace di affrontare quella elettrizzante “epica in cucina”, che chiama il figlio per chiedere informazioni, “per sapere cosa si stava perdendo” e al termine della partita può finalmente abbracciarlo “sciolto dal suo incantesimo”.
Nel personalissimo pantheon calcistico di Magrelli trovano posto personaggi vari, la maggior parte solo fantasmi nella memoria collettiva. Si tratta ad esempio di Jackie Charlton che, nelle vesti di allenatore dell’Eire, stringe nervosamente tra le mani la scoppola, in un gesto d’altri tempi che nulla ha a che vedere con le prove attoriali degli allenatori da oggi, o di Rudi Volk, “antico cannoniere” della Roma, autore della rete determinante nel primo derby giocato contro la Lazio, o di un anonimo giovane campione locale, aggressivo e sguaiato, che si ferma in mezzo al campo a ruttare e diventa, agli occhi del bambino Magrelli, irresistibile per il suo “carisma primitivo”.

Addio al calcio è in fondo un meraviglioso atto d’amore verso uno sport che l’autore confessa di non praticare più come calciatore (“io, che vivevo all’aperto, ebbro di ossigeno, sono rientrato nel nero bozzolo, rinchiuso nell’astuccio di una stanza a macinare chilometri in cyclette”), ma nemmeno di seguire da spettatore. Eppure, conclude Magrelli, “quel morbo lontano continua a possedermi, senza che abbia trovato alcun antidoto”. Perché questa invincibile attrazione? Forse perché, come scrive l’autore a proposito di palloni ancora una volta scagliati verso il cielo, ma questa volta molti anni dopo le esibizioni di Castel Sant’Angelo, “quel gioco era slegato da tutto, e si traduceva in un semplice desiderio di movimento e di elevazione. Forse perché quel gioco era una preghiera”.

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