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SCONCERTO di Franco Marcoaldi (Bompiani)

Sconcerto è uno spettacolo di “teatro di musica”, secondo l’espressione coniata dai suoi ideatori. E’ nato dall’incontro tra le sensibilità artistiche, diverse per tipologia di linguaggio, estremamente vicine nell’amicizia e nel comune sentire, del compositore Giorgio Battistelli, dell’attore e regista Toni Servillo e del poeta Franco Marcoaldi. Di quest’ultimo è il testo che fa da base alla rappresentazione teatrale e che ora viene pubblicato da Bompiani nella collana Assaggi e Passaggi. 
Il testo di Marcoaldi (non un libretto d’opera, ma, come lo definisce lo stesso autore, “materiale letterario” che accompagna gli altri linguaggi) è in effetti un poemetto ben congegnato, lucido esempio di poesia civile, particolarmente efficace e, considerati i tempi, estremamente opportuno. Protagonista della scena e io-lirico monologante è un direttore d’orchestra che, aggredito dal frastuono che ci circonda, dalle troppe e contraddittorie sollecitazioni a cui non è più possibile dare senso, rimane inerte di fronte ai musicisti, incapace di agire, schiacciato da “troppo mondo nella testa”, e dalla responsabilità di un ruolo che lo vorrebbe invece, per definizione, elemento ordinante e chiarificatore.
E’ appunto questo lo sconcerto a cui fa riferimento il titolo. Termine dichiaratamente ambiguo, che richiama sia l’incapacità del direttore di ricondurre ad unità le note dell’orchestra, da cui la mancata esecuzione del concerto, sia lo stato d’animo del protagonista, e di noi tutti, che è quello di uno sbigottito scombussolamento di fronte alla disarmonia degli impulsi a cui siamo quotidianamente sottoposti.
Il senso, sia pure velatamente metaforico, è trasparente fin dai primi versi: non si tratta di una condizione astrattamente esistenziale, quella che il direttore denuncia con la sua paralisi di fronte all’orchestra, ma dell’effetto di una decadenza morale e civile, di cui è vittima un po’ tutta la società occidentale, in particolare il nostro paese: “Ecco lo specchio di un paese / smanioso, torvo, sfiduciato, / sempre pronto alla bagattella, / alla favola, alla sovreccitazione. / Confuso, frivolo, stordito, / che barcolla al buio senza direzione, / in un interminabile presente”.
Non possiamo che prendere atto di vivere tra le “macerie di una morale / ridotta ormai a sbobba inacidita”, in un paesaggio spettrale dove “le parole ingoiano le leggi”, “la violenza ingoia il coraggio” e quello che è peggio “il falso ingoia il vero”. L’unica cosa salda resta “il soldo, il dindolo, la grana”. E’ un paese segnato dalle morti sul lavoro, dal potere che si autocelebra, dal consumismo sfrenato, dalle scelte dettate solo dalle ragioni della finanza. Un paese dove le sigle finiscono per nascondere l’essenza delle cose: “Attenti con le sigle, che i CIE / ad esempio non sono buoni del tesoro, / ma lager dove s’ammassano / immigrati clandestini. / Odori acri, un caldo atroce, volti smarriti / e supplicanti, scarpe sfondate, parole ignote…”.
Ma un rimedio c’è. Ed è quello di utilizzare il linguaggio perché “azzittisca la solita, insensata sarabanda” e restituisca un senso al nostro agire. E’ la musica che può indicarci la strada per la ricostruzione: “quella strana lingua / che riesce a far parlare / le creature mute, / la quieta essenza del mondo, / la vita segreta delle cose”.
Marcoaldi ci mette di fronte a uno specchio, che riconsegna le forme impietose e deliranti del nostro presente. Le immagini sono intense e crude, e veicolano una verità spietata, che il poeta ci restituisce attraverso la lingua della quotidianità, un lessico semplice e cronachistico, sorretto però da una versificazione dal ritmo musicale e armonioso. 
L’effetto è quello di recuperare significatività al linguaggio di tutti i giorni, che ci viene riproposto depurato e ripulito, di nuovo in grado di dare un nome alle cose. Se quello che accade intorno a noi genera smarrimento, Marcoaldi decide di raccontarci la nostra condizione attraverso l’uso, quasi provocatorio, di una musicalità tenue e pacata. Ne deriva il recupero di un senso morale che è innanzitutto misura, rispetto degli altri e dell’ambiente, capacità di provare sentimenti semplici, perché “il vero segreto / il vero mistero, è nell’evidenza. / E’ nella semplice e pura presenza”.

(pubblicato su Giudizio Univesale.it il 2 novembre 2010)

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